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“donna disturbante, libera, non conforme, in buona sostanza, un’outsider”

Cettina Vivirito

Ci sono autori, scrittori, artisti che svolgono la loro attività senza mai prendere posizione rispetto a problemi sociali e politici, probabilmente dicendo a se stessi, in maniera del tutto legittima: ‘è la mia opera che parla’. Dire: – non devo prendere posizione su quello che sta succedendo nel Mediterraneo, non m’importa se qualcuno ridotto in condizioni pietose sceglie di morire ma è costretto a rimanere in vita (se vita può chiamarsi), non m’importa che qualcun altro venga processato ingiustamente perché sapete chi sono, sapete come la penso, basta trovarmi nelle pagine che ho scritto – significa salvarsi dal fare una scelta che potrebbe portare alla gastrite, all’insonnia, al mal di testa, alla solitudine.

Oggi molto più di ieri. Perché se ieri scegliere di mettersi contro Berlusconi era un contro che non portava alla solitudine, (portava conseguenze ma non solitudine) oggi sì. Oggi vince il principio: se ne parli, se prendi posizione, se siedi su quel palco, ne hai profitto e vantaggio, quindi sei in-autentico. Nel provare a prendere posizione sui migranti, per esempio, cosa ci si sentirà dire? ‘Portateli a casa tua se ci tieni tanto’. E siccome i protagonisti non hanno voce, viene relegata al silenzio la vicenda.

Se si è donne poi, come sostiene Michela Murgia, si può persino morire di linguaggio.

Com’è che siamo finiti a doverci difendere da quella che Erri De Luca chiama ‘la parola contraria’? A doverci difendere dai politici prima ancora che dai criminali? È veramente questo il nostro Paese? Sì, questo è.

Ecco allora che chi osa uscire fuori dal seminato diventa un outsider il quale, a prima vista, è un problema sociale: sta sempre dalla parte della verità a costo di tutto, anche di se stesso. Per Colin Wilson, che a questo tipo di personalità ha dedicato uno dei libri attualmente più interessanti sul tema, ‘l’outsider è l’unico in grado di vedere in un mondo di ciechi’.

Michela Murgia, classe 1972, di origini sarde e di formazione cattolica, scrittrice raffinata e grande comunicatrice, con la sua visione di politica come cultura, di cultura come politica, con il suo linguaggio franco e tagliente, è stata definita recentemente da Papa Francesco ‘donna disturbante, libera, non conforme’, in buona sostanza, un’outsider.

È da outsider che alle elezioni regionali sarde del 2014 Murgia si candida per la presidenza con la coalizione Sardegna Possibile, mettendo in secondo piano la sua immagine di scrittrice premiata, tradotta, amata, stimata, e portando la sua passione, la sua onestà e la sua vitalità in politica con una campagna elettorale mai vista prima, fatta di ascolto, pensiero, coesione culturale, con un progetto di democrazia partecipata partito dal basso, anche se la coalizione non ha superato lo sbarramento previsto dalla legge. Un modello di sviluppo che rinuncia all’economia delle grandi opere per privilegiare micro progetti e la ricostruzione di tutte le filiere produttive. Non importa se si parla di libri e cultura, piante officinali e agricoltura, sanità, industria, artigianato: Michela Murgia parte sempre dalla valorizzazione dell’esistente, dalle peculiarità del territorio, dalle esigenze e dalle proposte della popolazione che abita quei territori dimostrando come la politica possa liberarsi dalla palude in cui è imprigionata da decenni, considerando la partecipazione un antidoto alla devastante indifferenza generale che abbatte ogni ponte. Una vera rivoluzione.

“Io penso che questo governo sia fascista. Lo penso dalle scelte, dalle decisioni che sta prendendo. Cioè controllo dei corpi, controllo della libertà personale, discriminazione delle comunità già discriminate che stavano riuscendo a ottenere dei diritti. Una certa impostazione ideologica che inevitabilmente ripercorre cose che abbiamo già visto. Ma voi vi aspettate che il fascismo vi bussi a casa con il fez e la camicia nera e vi dica: ‘Salve, sono il fascismo, questo è l’olio di ricino’? Non accadrà così”. Così Michela Murgia al Salone del Libro 2023 intervistata da Andrea Malaguti.

In direzione ostinata e contraria riprende e attualizza il verbo pasoliniano che negli anni Settanta diceva: ‘stanno chiudendo le piazze’. Quegli spazi previsti proprio perché le persone si incontrino. Poiché chi progetta spazi progetta comportamenti, è evidente che gli spazi di oggi generano solitudini. In una città piccola come la Oristano di Murgia il sabato pomeriggio si esce per andare al centro commerciale, perché non esiste un altro luogo dove andare. Le piazze non ci sono più, e se ci sono, sono chiuse al traffico, per cui chi ha un bambino piccolo non fa due chilometri per andare al centro storico, va al centro commerciale perché c’è anche l’aria condizionata. Tutto sembra ragionato per eliminare i luoghi di incontro. ‘Se potessi recuperare qualcosa, recupererei il concetto di urbanistica come materia umanistica, luogo in cui vengono progettati modi di essere delle persone’.

Lo stesso discorso vale per la politica: non ci sono più le sezioni di partito. Chiudendo le sezioni di partito il peso dei militanti dentro la progettazione di quell’idea di mondo è totalmente ininfluente. Che politica si genera chiudendo le sezioni?

Quello del rapporto tra intellettuali e impegno civile è un tema certamente non nuovo. Per Michela Murgia, gramsciana di formazione, non esiste un altro modo di essere intellettuale. Gramsci diceva che l’intellettuale è proprio il grado di congiunzione tra l’elemento popolare e l’elemento sovrastrutturale. L’intellettuale è ‘pontefice’, nel senso che costruisce ponti narrativi, in questo senso un intellettuale che lavora con le parole è naturalmente politico. Soprattutto oggi, tempo della narrazione perché non è rimasto altro: se non abbiamo più le piazze, non abbiamo più i bar, non abbiamo più gli spazi comuni, cos’altro ci rimane se non le storie? Dentro le storie si può ricreare lo spazio in cui le persone si possono ri-conoscere, e ciò significa che non ci si può esimere dal tenerne conto senza diventare scrittore ‘décor du régime’.

Sebbene Murgia non nasca con vocazione di scrittrice ma infine abbia scritto dei libri notevoli (in primis ‘Accabadora’ dove con estrema bravura letteraria tocca temi sociali come il fine vita e le adozioni, col quale ha vinto premi prestigiosi) non è per quelli che viene oggi conosciuta e ri-conosciuta ma per le passioni fredde e roventi della sua intelligenza che si evincono in varie interviste, la più toccante delle quali è quella oramai nota rilasciata al Corriere della Sera sulla sua malattia, un cancro al quarto stadio che le lascia poco tempo da vivere, dimostrando ancora una volta la sua capacità di ribaltare visioni comuni e generalmente condivise:

“Perché proprio a me’? Varrebbe, come domanda, se me la fossi posta quando mi sono capitate le fortune nella vita. Cioè quando ho incontrato le persone giuste, quando ho scritto i libri che volevo, quando le persone hanno creduto in me. Quando ci arriva il bene, quando ci arriva la fortuna così definita, nessuno si chiede ‘perché proprio a me’, pensiamo tutti di meritarcela. La domanda è ‘perché ti aspetti che il male succeda sempre agli altri e il bene sempre a te’? Perché quando ti accade il bene è normale e quando ti accade il male è un’evenienza che doveva scansarti e colpire il tuo vicino? La domanda che mi faccio è ‘perché non a me’? Io non sono speciale. Tutti i giorni le persone ricevono una diagnosi di malattia che non si aspettavano. Può essere questa per me un’occasione per dimostrare, per far veder che c’è un modo di normalizzare anche le cose che non ti aspetti.”

Prima di lei abbiamo sempre creduto il contrario: il cancro è un nemico da combattere, la malattia una battaglia persa in partenza. E rimaniamo esterrefatti dallo spettacolo di quel sorriso smagliante, dalla bellezza di quella testa rasata, dall’intelligenza di quello sguardo penetrante.

Ma di Michela Murgia si parla per tanti motivi. Perché la Francia l’ha appena nominata Chevalier de l’ordre des art e des lettres. perché avvolta da uno svolazzante e meraviglioso abito di Valentino ha incendiato il Salone del Libro di Torino, dove ha fatto il pienone sia presentando il suo nuovo emozionante romanzo (‘Tre ciotole’) sia registrando assieme a Chiara Tagliaferri la prima puntata della nuova stagione del loro podcast ‘Morgana’, il più interessante podcast live mai accaduto in Italia, dedicato alle madri, quelle fuori dagli stereotipi di genere e di legame biologico. Come le drag queen che, nella New York post industriale del Novecento, innescarono la lotta contro le discriminazioni razziali e quella per il raggiungimento dei diritti civili della comunità Lgbtq+. E che inventarono le loro house per accogliere neri, latini, queer. Perché studia il coreano. Perché squaderna la famiglia tradizionale e le oppone quella queer, dove i sentimenti non sono vincolati ai ruoli, ma al contrario i ruoli sono maschere che i sentimenti indossano quando e se servono. Perché usa categorie del linguaggio alternative creando una semiotica inedita che permette inclusione, supera i titoli legali, limita le dinamiche di possesso, moltiplica le energie amorose e le fa fluire. Perché usa Instagram come nessun intellettuale ha mai fatto. Perché è capace di sintesi, perché dice quello che le pare.

Senza andare negli Stati Uniti ma rimanendo in Europa a me fa venire in mente una donna altrettanto outsider ma sicuramente ancora più all’avanguardia, considerando che visse nei primi del Novecento: Lou Andreas Salomè.

Attratta anche lei dalla ricerca di Dio, ma più precisamente dal senso della vita, quella ragazza “dotata di prodigiosa intelligenza” lasciò Pietroburgo per proseguire gli studi a Zurigo, allora sede dell’unica università con libero accesso alle donne. Diventa una donna dalla tensione intellettuale incessante che la spinge a ricercare un modo di essere, di stare al mondo, a costo di spezzare le catene della morale, delle convenzioni, dei conformismi. Lou Salomé era indubitabilmente bella, ma ciò che fece perdere la testa a uomini tanto speciali (Rilke, Nietszche, Freud) fu la sua splendente intelligenza, poiché non vi è nulla di più erotico.

Vissero uniti nella stessa casa, ma distinti, liberi pensatori intenzionati a gettare luce sopra l’abisso del genere umano. Un cenacolo di studi e scambi culturali (anni dopo si sarebbe chiamata “comune”) rallegrato da un andirivieni di amici. A suggellare quella loro unione che tanto mi fa pensare alla famiglia queer di Murgia una fotografia che resterà nella storia: su un carretto trainato dai due filosofi, si erge Lou, armata di frustino. Quella purezza di intenzioni si infranse per motivi troppo umani; da un lato i pregiudizi branditi soprattutto dalla perfida, puritana sorella di Nietzsche, Elisabeth, dall’altro lo squilibrio di un ménage à trois che mai avrebbe potuto rivelarsi paritario. Paul e Friedrich si contesero l’amore di Lou, la natura platonica del loro rapporto fu una chimera. Entrambi la chiesero in sposa, a entrambi si sottrasse rispondendo a una certezza che non l’abbandonò mai: “Il matrimonio, con il suo contorno di possessività e gelosia, schiavizza lo spirito. Non mi avranno mai”. Saranno solo amici e complici. Un convincimento così radicato da non venir messo in discussione nemmeno dall’unico uomo che Lou accetterà di sposare, Friedrich Andreas, un affascinante studioso di lingue orientali dal quale non si separerà fino alla fine. Un matrimonio bianco nel quale Lou si rifugia, per sentirsi “ancora più libera” perché la rispettabilità dovuta a una donna sposata le consentiva di viaggiare e di muoversi a suo piacimento.

Malgrado l’assenza di passione, il matrimonio con Andreas rappresentava la casa in cui rifugiarsi e la certezza di un affetto, che sebbene messo a dura prova, il marito non le fece mai mancare. Di nuovo, è lei a dettare le regole, e fra queste la più dolorosa è quella di non volere figli: “Ci vuole un coraggio che non possiedo”. Nello strano patto di reciproca libertà verrà accettato l’arrivo di una figlia, Marie, concepita da Andreas con la governante, che Lou amerà e proteggerà nominandola sua erede. Una straordinaria assonanza con la Maria di ‘Accabadora’, senza accabadora. Sarà proprio Marie la fedele custode dei suoi scritti.

È stupefacente constatare quanto donne tanto lontane, Lou e Michela, siano capaci di lasciare una identica scia vitale dietro di loro, come riescano entrambe a tessere rapporti fondati sul rispetto e la benevolenza. Leggendole, conoscendole, emergono immagini di donne in pace con loro stesse, una pace raggiunta senza angosce né paure, come capita a chi trova il proprio posto nel mondo.

Ha anche molti nemici Michela Murgia, prevedibilmente, ma leggendo i suoi racconti ci rendiamo conto di essere tutti capiti, amici e nemici insieme, tutti compresi nel nostro star male e tutti stupiti dinanzi al suo coraggio, alla sua accettazione, alla sua leggerezza.

Il suo è un viaggio iniziato da outsider che potrebbe concludersi da santa. Del resto il Verbo si è fatto carne, non carta.

Cettina Vivirito

Sono nata nel periodo del ‘sacco di Palermo’, ovvero durante gli anni in cui la città veniva devastata dalla lunga mano mafiosa: questo incontro ravvicinato ha determinato in me un profondo senso di ribellione diventata poi disobbedienza civile. Giornalista ‘non’ iscritta all’Ordine, due corsi di laurea senza laurea finale, militanza nel partito radicale, già libraia, archivista e lettrice per vocazione con una smodata attenzione al regno animale e al regno vegetale, idealista e non conforme, sogno ancora l’isola di Utopia.