Marcello Benfante

“Il tempo che distrugge, esisterà davvero?”
Rainer Maria Rilke

Della scrittura di Goliarda Sapienza (Catania 1924 – Gaeta 1996), conosciuta post mortem, m’innamorai subito, nel 1997, a partire dall’esperienza del suo formidabile e dirompente romanzo “L’arte della gioia”, che tuttavia non mi convinse del tutto (non so se per miopia o per acribia o per l’unione dei due opposti difetti) e che recensii su “Segno” e su “Lo Straniero” nel 2007 con qualche perplessità e piccola riserva.

Seguì un percorso di letture e di recensioni (una decina, fra racconti, memorie, poesie e testi drammaturgici, sempre su Repubblica-Palermo), che mi aiutarono capirla meglio, in modo più profondo e consapevole. Per capire ciò che si legge bisogna scriverne. Almeno, per me è sempre stato così. È attraverso questo cammino di scoperta e di approfondimento che mi appassionai all’arte autentica, sebbene talora un po’ naif, di Goliarda Sapienza (d’altronde, ho sempre avuto un interesse fortissimo per la scrittura femminile: Anna Maria Ortese e Fabrizia Ramondino in testa).

Nel mentre, dopo qualche contatto epistolare, facevo la conoscenza di Angelo Pellegrino (Palermo, 1946), attore, traduttore, scrittore, marito di Goliarda Sapienza nell’ultima fase della sua vita sentimentale, biografo e curatore postumo della sua opera, di cui lessi e recensii (ancora su Repubblica) alcuni testi narrativi e autobiografici.

Pellegrino è un autore poliedrico a cui corrisponde una personalità dalle molte sfaccettature: interprete e caratterista di ruoli cinematografici e teatrali che oscillano tra l’avanguardia e il genere commerciale, si è distinto come intellettuale per la sua vasta e raffinata cultura di classicista (larghissimo successo ebbe ad esempio la sua traduzione de “La lettera sulla felicità” di Epicuro per Stampa alternativa) e come scrittore dalla vena malinconica e rimembrante alla ricerca intimista delle radici (vedi il suo personalissimo e umbratile “Piombo felicissimo” del 2005) o come saggista con una estroversa propensione al viaggio e all’altrove (“In Transiberiana” del 2013). Ma soprattutto la sua fama e la riconoscenza di noi tutti si devono all’opera tenace e devota attraverso la quale ha saputo recuperare il tesoro sommerso dell’opera di Goliarda Sapienza, opera inedita e misconosciuta, respinta e snobbata da editori e critici con un cieco furore che si potrebbe definire persecutorio, fino alla morte della grande scrittrice, sopraggiunta improvvisamente (ma in qualche modo annunciata) a Gaeta nel 1996, anche a causa di un così aspro e ingiusto isolamento.

Non mancarono tuttavia voci critiche e velenose su questo assiduo lavoro di Angelo Pellegrino di recupero e riproposizione dei testi negletti dell’amata Goliarda (anche a me capitò, nel corso di una presentazione di un libro dell’amica Maria Attanasio, altra grande scrittrice da me prediletta, di udire il commento acido di una relatrice che criticava l’opportunismo utilitarista del curatore Pellegrino). Discorso in primo luogo ingeneroso, oltre che assurdo nella sua astrattezza e inclemenza ideologica, ché se non fosse stato per l’abnegazione di Pellegrino nessuno mai (o forse chissà quando, chissà come) avrebbe conosciuto il genio cristallino di Goliarda Sapienza, la sua voce struggente e insieme gioiosa, vitale, ancorché ammutolita dalla logica miserrima del mercato editoriale.

Pellegrino, già autore di un “Ritratto di Goliarda Sapienza” nel 2015 che ebbe significativa eco in Francia e di rimbalzo in Italia, torna ancora con “Goliarda” (Einaudi, pp. 176, euro 16) sulla sua musa, quasi con tormentosa dedizione, dando alle stampe un racconto senile e nostalgico, di dolcissima pietas e di lancinante rimpianto che è forse una delle sue opere migliori. S’è detto “racconto” (ma anche saggio, per le numerose notazioni stilistiche sulle radici popolari e la vocazione melodrammatica di Goliarda) per non azzardare “romanzo”, che è sempre una definizione che implica l’arbitrio dell’invenzione, cioè, a dirla con Manganelli, la menzogna, l’impostura. Si tratta invece di un racconto della memoria, della rievocazione spirituale. Ma anche del desiderio, che non si estingue mai. Della vita, che finché può, si oppone, soprattutto con la scrittura, all’oblio e alla morte.

Un racconto sincero e veritiero che è anche una confessione delle proprie debolezze: la vanità, le paure, lo smarrimento, la fuga dal passato e l’ostinazione “folle” a tornare ad esso. Un racconto “sentimentale”, insomma, come ammette lo stesso autore (“Mi considero un uomo sentimentale, come lo è d’altronde questo libro che sto scrivendo”), in cui cioè si palesa e si nasconde il “gioco sottile”, pericolosamente affilato e tagliente, delle ragioni del cuore.

Ragioni antiche e nuove, che non invecchiano e si rinnovano perpetuamente, seppure con pudore e perfino con reticenza, con timore e tremore, o più esattamente con timore e pudore. Si tratta infatti di un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca di un passato perduto, di cui restano fantasmatiche rimembranze, ma anche di un’altra occasione, per quanto ipotetica e labile, per il presente o per un residuo futuro. Il pretesto è dato dall’incontro con una giovane fotografa, Judith, fervida lettrice di Goliarda Sapienza, che vorrebbe realizzare un libro fotografico sull’amata scrittrice e a tal fine si è rivolta ad Angelo Pellegrino, suo compagno e biografo, per essere guidata suoi luoghi in cui Goliarda visse, scrisse, amò, recitò, e sognò, tentò e infine morì.

Itinerario di devozione e di passione in cui la neofita si associa all’assistenza dell’anziano sodale per compiere una via crucis intellettuale, di rifiuti, stenti, disconoscimenti, ma anche di luminose rivelazioni e gioie, che naturalmente culmina nella Gaeta fatale dell’ultimo volo di Goliarda. Un pretesto fin troppo palesemente letterario e fantasioso, ma che si rivela autentico e commovente, tappa dopo tappa, come una sorta di rassegnato memento mori e al tempo stesso di utopica fuga dalla morte e dalla fine. Utopico, e forse meramente pretestuoso, è intanto destinato a rimanere il libro fotografico, che resta un progetto, un’idea. E fantasmatica la fotografia di luoghi che nel frattempo sono mutati e quasi svuotati di senso.

“Che follia cercare di fotografare Goliarda”, esclama a un certo punto Pellegrino. Che follia soprattutto pretendere di invertire à rebours il corso del tempo e lo stesso verdetto inappellabile della morte. Il tempo e la morte trasformano e falsificano ogni cosa e i morti stessi. Ed è delirio illudersi di poter strappare Goliarda al suo destino, come racconta il mito di Orfeo. Illusione che è insita nell’avventura del viaggio stesso: “Si può davvero far tornare quello che qui è stato?”. Ma questa follia, questa illusione, si sdoppiano nell’eterno abbaglio dell’amore, nel suo equivoco, nel suo qui pro quo, nel suo fraintendimento, che in fondo è l’allucinazione del “Vertigo” hitchcockiano, cioè il tentativo distopico e ossessivo di reincarnare un ricordo sentimentale.

Nel passato rimane un che di ineffabile e di inenarrabile, un residuo inesprimibile. Vi sono cose che non si possono dire né scrivere. Possiamo recuperarne il mistero, rivivere un’emozione, una sensazione, ma sempre con il rischio di una falsificazione, di un terribile malinteso. Goliarda-Liuzza (o Modesta-Angelica dei Pupi) sembra a un certo punto del viaggio “fotografico” duplicarsi in Judith, una Judith dorata nel sogno, per la quale Angelo averte un tardivo e disperato amore. Ma è un amore incomunicabile e senza futuro, nato dolcemente e teneramente inseguendo le tracce di un fantasma sfuggente. Se la morte è un “artificio”, l’amore lo è ancora di più.

Il libro fotografico resterà un’ipotesi evanescente. Alla fine rimarrà solo il ricordo splendido e irripetibile di Goliarda e della sua arte. Ma nel cuore del suo narratore rimane pure custodita la consapevolezza di una vita interiore inestirpabile: “finché io vivo tu ci sei”. Si conferma con questa tautologia esistenziale e memoriale il carattere sentimentale, cioè in qualche modo flaubertiano, del libro di Pellegrino. Romanzo, possiamo ora ben dire, della fenomenologia e delle metamorfosi dell’amore. E della sua salvifica resistenza oltre la morte.