Marcello Benfante

“Nel ventre dell’Orca”, graphic novel di Michela De Domenico pubblicato da Mesogea

Secondo Alberto Savinio la parola Mare deriva etimologicamente dal sanscrito Maru, cioè deserto e più propriamente “cosa morta”, dalla radice Mar, ossia morire.

Lo ricordava Walter Pedullà in un notevole saggio introduttivo all’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo intitolato “Congetture per un’interpretazione di Horcynus Orca” (Rizzoli, 2003): “romanzo di morte e di mare che si chiude sopra il deserto dei valori di un mondo travolto dalla guerra”.

Congetture, appunto. Ché altro non si può, né forse si deve, oltre il supporre, il presumere, l’ipotizzare, in merito a un romanzo così vasto e complesso, equoreo e proteiforme, profondo e inafferrabile, come il capolavoro di D’Arrigo.

L’ultima parola del romanzo è proprio, non casualmente, mare. Parola peraltro ripetuta in una formula tautologica e insieme tombale che dà il senso di una abissale, oscura e dolorosa insondabilità.

“… come in un mare di lacrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare”.

Questo aspetto luttuoso, fatale e disperato, del romanzo di D’Arrigo forse può spiegare, almeno in parte, una certa refrattarietà nei suoi confronti da parte di molti lettori.

Io stesso ho fatto, ovvero ho subito, una lunga resistenza a quest’opera minacciosa e problematica, fatta di rinvii scaramantici, timide ritrosie e pigre parcellizzazioni.

Il mio amico Salvatore Cangelosi, libraio e scrittore di origini monrealesi, autore fra l’altro, insieme a Mario Grasso di un saggio in forma d’intervista apparso per l’editore Torri del Vento nel 2020 con il titolo di “C’era una volta un certo Stefano D’Arrigo di Alì Marina”, mi raccontava della titubanza e perplessità di Leonardo Sciascia per il mastodontico volume di D’Arrigo e del gesto della dita, l’indice il pollice, con cui lo scrittore di Racalmuto ne indicava il massiccio spessore per giustificare il suo ostinato silenzio.

La mole è certamente un deterrente abbastanza dissuasivo per chi come Sciascia (o, si parva licet, come me) ha una predilezione per le opere snelle, per i racconti brevi e asciutti.

Ma mettere la questione in tali termini è davvero troppo squallida e povera cosa.

E così pure riferirsi all’aspetto necrologico di “Horcynus Orca”: il suo essere incentrato sul tema della “morte per acqua”, per usare il titolo di un celebre componimento di Eliot, costituisce piuttosto una componente del suo fascino inesprimibile.

Mi sembra invece che per molti lettori, e certamente per Sciascia, sia stato più efficace l’ostacolo di una certa sua selvaggia suggestione erotica (anch’essa peraltro tanatologica). Soprattutto insieme a una sua potente eresia mistilinguistica.

Gli equivoci e le ambiguità semantiche e linguistiche, determinate dal crogiuolo letterario sperimentato da D’Arrigo, si mescolano peraltro a un’ulteriore complicazione causata da elementi di natura psicanalitica che fanno del mare o dei mari dell’Horcynus, della loro profondità, un insondabile inconscio collettivo e primordiale.

La confusione babelica introdotta dall’uso promiscuo di espressioni dialettali e di altra fonte (greca e ispanica, soprattutto) si unisce così alla sovversione antropologica e sociale determinata dall’avvento apocalittico del protagonismo femminile e animale.

Il metamorfismo, che è l’elemento costante di tutto il romanzo, si presta a illustrare un mondo alla rovescia in cui il mare insidia la terra, la fera l’uomo, la femmina il maschio con una inquietante inversione di ruoli.

Di tutti questi temi e nodi (la morte, la violenza, l’erotismo, il femminismo, l’animismo) troviamo traccia, sebbene in una forma necessariamente condensata e quasi epigrafica, nel lavoro rigoroso di Michela De Domenico, nel suo conciso e potente graphic novel “Nel ventre dell’Orca” (Mesogea (pp. 103, euro 18) con una nota introduttiva di Moshe Kahn e una postfazione di Caterina Pastura).

Ma in primo luogo è il tema labirintico della traduzione il fattore centrale della colta rielaborazione epico-lirica della messinese Michela De Domenico (architetto, dottore di ricerca, docente, saggista, illustratrice, street artist).

Intanto perché l’autrice sfrutta ottimamente l’idea di fare di Moshe Kahn, il reale traduttore tedesco del romanzo di Stefano D’Arrigo, il protagonista e il testimone-narratore della sua rivisitazione grafica in un modo che esalta il carattere metaletterario dell’Horcynus Orca e ne conferma il forte legame al suo luogo di nascita.

Romanzo che sorge in un luogo di traghetto, guado, passaggio per antonomasia e di strutturale promiscuità e collegamento tra acque e terre come lo Stretto di Messina, lo “scill’ e cariddi” di omerica ascendenza, quello di Stefano D’Arrigo è un codice tra codici che presuppone l’esercizio interlinguistico della traduzione.

Nel suo tratto grasso come nelle sue sottili articolazioni, nel suo modo laconico di narrare, la De Domenico richiama costantemente l’opera letteraria di D’Arrigo e ad essa rimanda sempre.

Si diceva “riduzioni” una volta, con implicita denigrazione. E tali erano considerati i fumetti, ma anche il cinema o gli sceneggiati televisivi. Eppure, ridurre è un’operazione d’interconnessione difficile e complessa.

Un’arte ibrida tutt’altro che elementare, come in questo caso, in cui l’autrice utilizza sapientemente un linguaggio analitico, frammentario, e insieme sintetico, unitario.

La tavola si scompone in scansioni plurime, pur mantenendo una sua compostezza, una dinamica armonia.

Michela De Domenico ricorre a uno stile icastico, scavato, inciso, con modalità di forte espressività, in cui il nero predomina e progressivamente si espande, dilaga, s’inabissa.

Il tono che sceglie Michela De Domenico è un sostanziale realismo, ancorché sconvolto da una sorta di doloroso stupore, un realismo enigmatico e fin quasi metafisico in cui si innestano elementi simbolici e rimandi analogici e metaforici (la punta nord-orientale della Sicilia, il Capo Peloro o Faro, e il cranio ischeletrito dell’Orca, per esempio, o il ventre del leviatano che contiene il corpo rannicchiato in posizione fetale del protagonista e che rimanda al biblico racconto di Giona).

La struttura possente e demarcata dai neri del disegno si apre e s’illumina nell’illustrazione dei dettagli e di talune presenze fantasmatiche e mitologiche.

La sequenza più emblematica è quella della visita alla biblioteca di D’Arrigo, momento non solo didascalico, bensì profetico, in cui si prefigura un destino di follia e perdizione nei labirinti inespugnabili della traduzione.

Che poi, come sentenzia Jutta Bruto (la compagna e musa, di vita e di scrittura, a cui D’Arrigo dedica l’esergo dell’opera: “che meriterebbe di figurare in copertina col suo Stefano”) nel finale, affacciandosi sull’uscio aperto sul buio in un’immagine di sapore quasi fordiano, sono le ineludibili correnti dello Stretto.

Anche dell’esercizio sofistico del tradurre si può impazzire e annegare.