Egle Palazzolo
Vorrei chiedermi in quanti siamo, tuttora, a voler evitare un “faccia a faccia” con Liù, la schiava, paga per sempre dell’unico sorriso di un padrone segretamente amato, ancella fedele al padre di lui, il re tartaro ormai vecchio e claudicante, pronta in ogni momento a sorvegliarli e soccorrerli. Non ho risposta, ma credo che ogni volta che ci imbattiamo nella sua grande lezione di amore, di coraggio, di dignità, di sacrificio, ci ritroviamo ad ammettere che se Liù è raro esempio, se scaturisce intatta da un antico testo di Carlo Gozzi, se fa da specchio rovesciato alla inflessibile Turandot, assai conta preservarla.
E’ sempre un dono per i cultori della musica lirica un’opera di Giacomo Puccini e non fa certo eccezione questa sua ultima Turandot rimasta incompiuta dopo la morte sulla scena di Liù con la quale drammaticamente coincise quella del compositore stesso. È stato più volte riportato come la prima rappresentazione di Turandot si allestì alla Scala nel 1925, poco meno di un anno dopo la sua morte, diretta da Arturo Toscanini che non nascose la sua commozione insieme al grande pubblico rapito dalla preziosa partitura sonora di quell’opera che si offriva postuma e che tanto aveva coinvolto il suo autore. Si racconta infatti che Puccini non avesse nascosto dubbi e voglia di rifiuti ai librettisti Adami e Simoni non solo per presunte lungaggini o per la collocazione dei tre famosi enigmi che paralizzavano la vita del regno, ma anche per la trasformazione cui sarebbe arrivata la figura stessa della regina pechinese tanto determinante per morte e vita di ognuno.
Ancora oggi il teatro Massimo che ha ripreso con una recente edizione dell’opera, la sua programmazione dopo la pausa estiva, registra un tutto esaurito per l’intera settimana e ha in cronaca le grandi ovazioni del pubblico alla prima serata. Come se contassero poco alcune perplessità di questa messa in scena che gioca su velocizzazioni, un tanto sorvola fra storia e ambientazione, poco si ferma come dovuto su assonanza di costumi nonché di spazi e movimenti. Si continua forse a tifare per la vittoria di Calaf, che riuscirà a salvarsi dopo la fine pietosa di tanti falsi eroi, come lui desiderosi non tanto di una donna bella e sconosciuta, quanto di vincere una sfida e, acquistare potere? Calaf ha anch’esso un suo mistero non legato soltanto al suo nome ad altri ignoto e il suo “nessun dorma “- qui interpretato da Martin Muehle, lo ribadisce insieme all’ossessione di volere sfidare la morte per mano di una donna che lo ha attratto in un dipinto e che vorrà comunque possedere.
Ma non perché ricorra preferenza di genere è alle due figure femminili, che si ritorna e intorno ad esse gira un dramma senza tempo: quella di Liù, una donna vera e riconoscibile che con la forza del “tu che di gel sei cinta” avvertirà Turandot, più che donna di cui avvertire reale esistenza, figura-simbolo, che non potrà sottrarsi all’amore indicandole chi sarà il suo uomo e come giungerà la resa dopo le sue ostinate crudeltà. E’ la sua ultima offerta per un uomo ottenebrato, pronto a servirsi di lei, della giovanissima “povera Liù “per addolcire a lui le strade, ove l’ignobile gioco di Turandot non gli fosse consentito. Tra la umile Liù e l’irraggiungibile regina il divario che rende umana la prima e figura simbolo la seconda, non compresa dal suo stesso padre, meno che mai dal suo popolo e chiusa in una trappola di isolamento e di presunta purezza cui il suo tempo non permetteva di riconoscere adeguate cure di sostegno
E a proposito di Liù è bello poter dire che Juliana Grigorjan è stata bravissima, appassionata, credibile e che la sua strada in ascesa le darà nuove tappe di successo. Ma non tocca a noi un giudizio peculiare su una edizione, complessivamente giovane, nella regia fantasiosa di Alessandro Talevi e nella direzione vigile e consapevole di Carlo Goldstein, quanto segnalare un evento che quando siamo all’interno del teatro della nostra città cui, sotto ogni profilo al pubblico amato e prescelto la nostra attenzione prende corpo. E ci porta a tirare fuori le nostre emozioni, anche i nostri risentimenti, a ricordare le nostre preferenze, le voci che abbiamo amato, il suono di un’orchestra che ci ha fatto sognare. E amiamo pensare che la magia della musica, persino fuori da un testo che i tempi nuovi ridisegnano, continui a esercitarsi su di noi.
L’incipit della recensione di Egle Palazzolo ci prende per mano e ci accompagna dentro l’opera incompiuta di Puccini mettendo in luce la complessità e la varietà dei caratteri che la compongono. Una guida per chi non ha ancora visto l’opera, un invito alla riflessione per chi, avendola vista, può rimeditarla.