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Anna Maria Bonfiglio, Clelia Lombardo, Doppia voce, Edizioni Arianna, 2023

Eleonora Chiavetta

La raccolta di poesie Doppia Voce, dedicata al poeta Nicola Romano, presenta in due sezioni distinte versi delle poetesse Anna Maria Bonfiglio e Clelia Lombardo. Può sembrare un’avventura la decisione di unire due voci poetiche nello stesso spazio editoriale e di instaurare così un dialogo, una conversazione in cui ognuna guarda alla quotidianità del proprio vivere, con tutte le sue difficoltà, le certezze e i dubbi, le speranze e le delusioni, e la commenta, la celebra e rivela, condividendola con l’altra voce poetica prima ancora che con il pubblico che leggerà questi testi. Alla base di tale avventura deve esserci naturalmente la consapevolezza di potere stare assieme sulla carta come amiche poete che condividono la passione per la parola e hanno certezza del valore di un testo poetico e dell’impegno che la fedeltà allo strumento della parola e del verso implica.

Non a caso l’immagine scelta per la copertina, Rebis al femminile di Emilia Gagliardotto, presenta un unico corpo di donna con due teste femminili e occhi che si guardano e si riflettono gli uni negli altri : un corpo di donna messo a nudo con i simboli della luna e della terra sul capo e circondato dalla gloria dei fiori, di quella natura che ritorna spesso nei versi di entrambe, simbolo di rinascita. Un corpo di donna saldamente connesso con la realtà in cui vive, anche se questa realtà affronta o subisce con una percettività spesso dolente.

Ho letto, dunque, questo libro come una confessione a due, uno scambio di anima, spirito e mente, al di là delle differenze dovute alle proprie esperienze, e per me è stato inevitabile, leggendo le poesie, cercare punti di contatto e/o differenze tra le due voci.

È certamente uguale l’onestà con cui entrambe affrontano la propria esistenza e il lavoro di poeta. Uguale è la spinta a scortecciarsi (uso un verbo tratto da una poesia di Clelia Lombardo), ad andare fino in fondo, senza infingimenti, senza falsi pudori e senza vanagloria, con un tono a volte pacato, a volte appassionato, a volte ironico, che mai si lascia andare a facili emozioni, a sentimentalismi, anzi, al contrario, si afferma lucido nell’esame e nella forza della consapevolezza e della condivisione con chi legge. 

La sezione con le poesie di Anna Maria Bonfiglio porta il titolo di ‘Minimo e infinito ’ , un ossimoro che verrà ripreso in modo circolare negli ultimi versi della sua raccolta. Fortemente metaforica è l’immagine dei versi premessi : “Del poco amore la sera/ trangugiò l’ultimo sorso” che introduce alcune delle cifre che percorreranno tutti i testi qui presentati da Bonfiglio con molteplici sfaccettature, mai univoche. In primo luogo con il riferimento alla sera e con l’aggettivo ‘ultimo’ viene introdotto il senso del tempo, di un tempo che sfugge alla nostra presa come Bonfiglio dirà anche in altri versi: “La colomba che con il becco/picchietta contro i vetri/sospira è tardi è tardi”. (p 27)

Il tempo è anche inteso come suddivisione nell’arco della giornata e della quotidianità. Nei  versi di Bonfiglio predominano il tramonto, la sera e la notte perché esprimono simbolicamente il senso della fine, di una fine che si sente più vicina, e questo a sua volta introduce il tempo dei bilanci,  su ciò che non siamo riusciti a fare, ciò che non abbiamo potuto fare o avere, ciò che non ci è stato concesso: “E’ un giorno lungo/la vita/con tante ore a perdere/e un ampio fazzoletto/dove raccoglie i frutti/andati a male” (p.11) afferma e ancora “Ah la vita/ una scommessa mai/ pagata -forse un refuso” (p. 25) Il bilancio, tuttavia, non è soltanto in negativo se “Si incenera la sera/nello scrigno di un giorno/che ha avuto la sua gloria”. (p.14) 

La notte porta in dono la creatività e genera ancora canti e voli d’angeli: “accosterò l’orecchio/ al cuore della notte/ perché il silenzio/ si faccia eco/di parole perdute/ e ritrovato stupore/ a un sogno ancora libero” (p.12). Sotto la cenere c’è dunque ancora brace, poiché c’è il sogno e lo stupore, c’è la spinta a cercare ancora e, da poetessa, a scrivere, con una creatività che può rimanere anche nascosta (“Ma le porte sono chiuse/ e non saprà nessuno/di quei canti”, p.16) ma pulsa nel cuore.

La nozione di tempo implica anche il senso dell’attesa. Quando, ad esempio, la voce poetica si guarda indietro, essa riconosce l’attesa che l’animava e che è stata disattesa: “una volta ero sasso/ e rotolavo in cerca/ della vita” (p.25), dice, e oggi, nel tempo dei bilanci, ritiene che si renda necessario “crudelmente accecare/ l’occhio perverso dell’attesa”(p.15), ovvero allontanare da sé la falsa speranza, poiché trascorriamo la vita protesi verso il futuro, attendendo il futuro, ma nel tempo della maturità ci rendiamo conto che “ […]l’attesa/ non è che la premessa/ del finale” (p.31). Il tempo è anche ricordo, rimpianto e memoria da trasmettere.

I versi di Bonfiglio sono sempre in bilico fra due possibili emozioni, tra la malinconia, che accetta l’inevitabile passare del tempo e le delusioni che la vita ci ha regalato (“Sono rimasti i silenzi/ degli impossibili eventi/i dati scartati per prudenza/la pigrizia di una felicità/che non ci ha trovati”, p.40), e il rimescolio del sangue che si fa ancora pulsione e spinta vitale di un animo che è sempre indomito: “Canta l’estate all’accordo veloce/delle dita/ e cresce il desiderio sulla pelle/gonfia le piume/per voli di segreta tenerezza” (p.23).

La raccolta si conclude con un’ultima richiesta della voce poetica e, ancora una volta, con una sorta di bilancio che, però, dà valore a ciò che si ha, che si è raccolto nel tempo e che si ama ancora. Perché il cuore batte tenacemente e vuole trattenere la memoria visiva e uditiva di ciò che appare piccolissimo, ma misticamente accoglie l’infinito: “Lasciatemi tutti i miei fiori finti/il mio salotto retrò/il pupo antropomorfo/mosso da ragnatele autarchiche/Li chiamo per nome uno per uno/ uomini e cose – piccole creature/del minimo mio bosco ed infinito-/per la paura di perdere per sempre/il loro nome e il volto/nella cupa foschia di un tempo morto” (p.41).

Se passiamo alle poesie di Clelia Lombardo, notiamo subito la coesione con quanto ha concluso la precedente sezione. Nel verso che introduce la raccolta di Clelia (“ di briciole faccio un pane”) ritrovo i concetti del minimo e dell’infinito, perché la briciola è immagine di minuzia, ma il pane è cibo per antonomasia e sostentamento, laddove mi sembra che sia il pane raffigurazione metaforica per il testo poetico, creato qua da versi brevi e immagini concise o anche dai frammenti che la vita concede.  

Il verso successivo nella pagina seguente, “oltre misura il cuore si scorteccia” introduce il bisogno di continua analisi di se stessi che abbiamo già visto nei versi di Anna Maria Bonfiglio,  ovvero la necessità di togliersi da dosso strati fittizi, di trovare un equilibrio nella propria vita all’insegna della conoscenza sincera, rinunziando alla protezione, per l’appunto, di una corteccia, di una corazza. Nudi, come nell’immagine in copertina, nell’affrontare le intemperie e le difficoltà dell’esistenza. Questo verso iniziale ritornerà come incipit in una successiva poesia di Lombardo: “oltre misura il cuore si scorteccia/ lento/ spinge la lingua dentro le parole/cava il respiro dallo struggimento” (p.51), dove la fisicità data dall’uso dei verbi ‘scorteccia’, ‘spinge’, ‘cava’ e dei sostantivi ‘cuore’, ‘lingua’, ‘respiro’ rende anche più materica la sostanza poetica.

La prima poesia di Clelia Lombardo è un dialogo con se stessa prima di iniziare a guardarsi e raccontarsi : “scusa se ti scompongo/in prossimità di raggio/ma la paura non impone/necessariamente la disfatta” (p.47), in cui troviamo l’equilibrio tra la paura di quanto si può trovare osservandosi e la speranza di una possibile vittoria nell’operazione di conoscenza di sé.

Con ironia l’io poetico instaura un dialogo con se stesso dove una voce si enuncia, a volte anche pateticamente, e l’altra suggerisce e incoraggia: “sono qui con i caratteri del cielo/ lontananza inappuntabile/rialzati lì/dove sei caduta” (p. 59), ma a volte ribatte con estrema durezza : Non sono presentabile/ interiormente intendo /al mio sguardo innanzitutto/ più che ad altri// cavati gli occhi allora”(p.62). Si presenta così combattiva e consapevole anche delle sconfitte – “lei di trame si fece a pezzi/a furia di sbattere la faccia/ le si cambiarono i connotati// di scalfire il muro neanche a parlarne/annegava nella polvere”. Ha la certezza delle spine che le si conficcheranno nel corpo durante il viaggio della vita, ma vi  unisce anche la consapevolezza che bisogna sfidare il maltempo e seguire le speranze (p.66).

Anche nei versi di Lombardo il senso del tempo è centrale ed è anche qui un tempo che scorre, ma invece che bilanci troviamo un capovolgimento con un’inaspettata virata che fa tornare bambini: “pensi di non poter resistere/all’inclemente prigionia degli anni/ invece sei qui/con una zucca nuova/ e l’ugola bambina” (p.65). Troviamo anche qui la scansione consueta del tempo nelle varie parti del giorno, ma al posto delle notti, cantate da Bonfiglio, troviamo “l’alba dei dintorni” che “si apre con vera riconoscenza” (55) e pomeriggi primaverili: “ricomincio da una luce alla finestra/ da un presunto palpito d’amore/dal tenero biancore/ di un pomeriggio primaverile/dopo tante austerità e lacrime/conficcate nella fronte/mi daresti un bacio?” (50). 

La notte figura anche in queste liriche, ma l’attenzione è verso la luna, chiamata in tre poesie a far parte dell’universo della poeta che con la luna, personificata, si identifica in modo pacato: “ luna serena mi somigli/ quando di tetti/ fai la sera// io di briciole/ faccio un pane” (p.70). Il raffronto con la luna, riprendendo il dualismo tra il minimo e l’infinito, presenta così ognuna al proprio posto, ognuna intenta al proprio lavoro. 

Il tema dell’attesa si ripresenta nei versi di Lombardo, ma è ancora colma di possibilità: “bisogna aspettare le nuvole/spiluccare ombre/come petali/proteggere i colori// diluire onde/sciogliere le mani” (p.60). La voce poetica è in continuo movimento: trasloca, cambia, rinunzia a bugie, a rimpianti, si lascia dietro le lacrime e ricomincia. È la ricerca di una intuizione dove si immagina che l’attesa sarà lunga, ma si è disposti ad affrontarla: “lunga sarà la via e l’attesa/di una rivelazione/appuntata sul petto/come spilla”( p.64). Basta poco, tuttavia, per trovare spunti di speranza e cambiamenti ed essere incoraggiati nella propria ostinata ricerca e nella fatica o nella necessità della scrittura, come nella poesia in cui compare l’immagine antica e simbolica di un veliero creato da fili di vento, sospeso così nell’aria e nell’immaginazione: “Di fili sparsi il vento quando viene a trovarmi/ciabattando mostra un veliero/speranzosa insorgenza alletta il quotidiano/infrange costrizioni/tesse” (p.48). Tesse così la poeta la trama e l’ordito della sua scrittura.