Egle Palazzolo

“Il male riconosce il male e lo elegge suo ambasciatore nella terra”. Ce la prendiamo di peso questa frase che ci porta a dire grazie a Chiara Muti, regista concreta e creativa che spinge senza tregua un suo Don Giovanni, ora riconoscibile ora nuovo, calato con costante istanza di contenuti nella scena, nei suoi cambi, nei suoi colori che hanno la sovranità del grigio e del nero.

In tandem eccezionale con Riccardo suo padre (attesissimo e applaudito a tutto campo, in un Teatro Massimo assolutamente colmo) la Muti firma e quasi promulga un personaggio in cui ogni sinonimo è marginale – seduttore, vanesio, libertino – quanto scandito è invece, il suo inarrestabile ricorso al male orientamento assoluto e scelta di sé.

C’è un filo che lega la composta e vibrante bacchetta del maestro sul podio alle parole di ogni romanza, ai movimenti e alle vicende di un palcoscenico dove ogni scrosciante risata dell’accanito collezionista di incontri d’amore, si assembla allo squallore del catalogo di conquiste rapide di cui va fiero. C’è violenza in questo Don Giovanni, è quella di un uomo di fascino e di perfidia, abilmente giocata su donne vittime soprattutto del loro bisogno di dare ed amare. Ed è stata di grande bravura Mariangela Sicilia, una Elvira tradita, disprezzata, sola, che, che grigia d’abito come il fondale di scena e come il cielo su di lei, non cela le sue lacrime e piega il suo grido di dolore all’amore per lui e alla pietà.

Ed è una pietas umana che Don Giovanni rifiuterà da qualsiasi parte gli venga. Resta cinico in ogni suo rapporto non solo con le donne, merce facile per un successo che non si fa più tale, ma, in quello col padre, in quello col servo – un Leporello che alza la testa a metà ma che trova nella sua coscienza le ragioni di un profondo sdegno – in quello col convitato di pietra, il cavaliere morto per sua mano che lo trascinerà al banchetto finale e inevitabile di un abissale precipizio.

La morte, in definitiva voluta con la vuota continuità da che ha determinato i canoni della sua esistenza, esautorato i sentimenti, argomentato come trionfo un nome in più sul lungo elenco di effimeri incontri, non sembra vincerlo ma persino sembra perdere mentre lo butta giù. In una scena di elegante ed essenziale effetto.

La coerenza al suo operato, la sua condizione demonica infatti, che lo fanno artefice di una vittoria inversa a canoni prefissati, è una delle tante letture che da secoli, con l’influenza di tempi nuovi, raggiungono un personaggio emblematico per destinazione.

Ma l’edizione che in questi giorni trionfa al Teatro Massimo offre di più. Intanto perché è Riccardo Muti che con l’ouverture coinvolge sin dall’inizio lo spettatore, ma perché il suo contatto con Don Giovanni, col suo credo di prepotenze e di piacere accanitamente costruito, ha una sua teatrale immediatezza.

Ed essenziale rimane la costruzione scenica che spiazza ogni analisi e lascia la Vita e La Morte sfidarsi all’estremo e sacro e profano proporsi: laddove il primo è forma e il secondo cieca ostinazione.

Un debole nell’animo che affrontando la morte e non il pentimento riscatta la sua debolezza?  Un uomo solo, incapace di amare ma che di questo è alla ricerca? O un infelice che non sa riconoscersi come tale, in una nera attesa che si consuma su una sedia, al centro di una stanza, dove chi per un attimo si avvicina rimane portatore di nulla?

Il Mozart che ascoltiamo con la gioia di sempre, la preziosa riproposta di Riccardo Muti, la lettura essenziale di Chiara Muti, le scene integranti di Alessandro Camera, le luci di Vincent Longuemare.

E di fronte a noi, il male come violenza e morte. Il male come inferno che avvolge e brucia.

E un’opera, il Don Giovanni, che nasconde in pieghe antiche ciò che è tuttora parte integrante delle relazioni umane che oltraggio vendetta, sangue, inchiodano via via senza scampo.

Il cast è di grande rilievo a partire, come sottolineato, dalle scene e con esse i costumi di Tommaso Lagattola. Ovazioni agli interpreti, il bel Luca Micheletti e con lui Maria Grazia Schiavo, Mariangela Sicilia, Alessandro Luongo, Giovanni Sala, Francesca di Sauro, Leon Kosavic, Vittorio De Campo. Trionfo infine per Riccardo Muti, che alla prima, sul palco ha inopinatamente ricevuto un ricco omaggio floreale, in meno di un momento gettato senza danno all’orchestra, con cui, come capita ai grandi maestri, aveva avuto visibile affiatamento.