Intervista di Egle Palazzolo

 

 

 

 

 

 

 

 

Adelaide J. Pellitteri autrice del libro “La figlia italiana”

 

 

Quanto incide nella vita di ognuno di noi il rapporto che abbiamo avuto coi nostri genitori, con uno solo di loro o con entrambi e quanto il loro destino, le loro scelte ci hanno segnato, è problema divenuto ormai ricorrente. In particolare, da quando la cultura dell’analisi e della introspezione hanno posto l’IO, il SÉ, il suo sviluppo, la sua crescita ad avere origine dalle cure genitoriali da cui in gran parte dipendono le relazioni esterne, l’autostima e un adeguato equilibrio emotivo. Breve premessa che stiamo doverosamente per lasciare a esperti e teorici ma che con tante altre considerazioni ci rimette a fronte Adelaide J. Pellitteri col suo primo romanzo “La figlia italiana” – PAV Edizioni – che pubblicato, lo scorso anno, quasi a fine pandemia, chiede certamente, dopo la rituale presentazione e lo spazio sui blog, una ulteriore attenzione. Eccola: “La figlia italiana” è un romanzo scorrevole, asciutto, di lodevole scrittura e senza affastellamenti. È la storia di Simona, donna ormai adulta, autonoma, apprezzata docente e della sua irrimediabile infelicità. Vi caccia dentro con immediatezza il lettore e snoda pagina dopo pagina i segni sulla pelle del suo risentimento irreversibile verso il padre che è andato via di casa senza voltarsi indietro e verso la madre a suo giudizio responsabile di una frattura che ritiene abbia colpito lei più di loro stessi. L’ossatura della storia si fa via via più robusta e le riflessioni che ci passa la protagonista non esorbitano ma lasciano spazio agli avvenimenti esterni pubblici e privati che incalzano. Di modo che possiamo apprendere che la sua “chiusura” potrebbe non essere definitiva. La parte finale è forse la più debole, la più esposta. È come dire: abbiamo sbagliato forse tutto perché abbiamo dato peso solo alle nostre ferite e il giudizio e la presa di posizione sono rischi che colpiscono soprattutto noi stessi. Ma ci fermiamo, perché qui, più che recensione, c’è il piacere di riportare in evidenza il titolo di un libro e lasciare a margine quasi come una risposta diretta quel che l’autrice può e vuole dirci rispetto a un paio di domande.

Egle: Simona è intelligente e sensibile, in più di una occasione lo dimostra. Non sa o non vuole uscire dal cerchio tragico da cui si fa stringere? 

Adelaide: Intanto, ringrazio Mezzocielo e lei per il tempo e lo spazio che state dedicando a me e al mio libro, sono felice di questa conversazione. A questa domanda rispondo che Simona non può perché ha un nodo da sciogliere; in chi si sente vittima spesso nasce l’autocommiserazione che nasconde la voglia di punire il colpevole. Come a dire: “Sono infelice per colpa tua e la mia infelicità sarà la tua punizione”. Ed è quello che fa la mia Simona con la madre, la punisce con il suo atteggiamento.

Egle: Ma la società, i suoi drammi, le sue miserie, che sappiamo sono sotto i suoi occhi non la guariscono e la maturano? 

Adelaide: No, perché le esperienze (sia negative che positive) non sono esportabili. Ognuno di noi affronta in modo diverso la vita e le sue vicissitudini. C’è chi reagisce in modo positivo e chi, invece, arriva al suicidio, poi c’è la via di mezzo come quella di Simona che approfitta del suo dolore per non crescere emotivamente e non affrontare la vita vera. Ha perso fiducia nei sentimenti, e per questo motivo il rapporto con gli altri è irrimediabilmente compromesso.

Egle: Dopo tanti eventi che spiegano le posizioni e i travagli dei genitori e di altri, abbiamo risolto? È una sorta di lieto fine che aspettiamo o il rapporto con la vita è comunque dell’individuo, della sua forza o di quella che sinceramente si sa cercare? 

Adelaide: Entrambe le cose. A Simona viene data la possibilità di sciogliere quel nodo e lei non se la lascia sfuggire, aveva bisogno di ricominciare da dove si era spezzato il legame, ricucito quello nasce un’altra Simona. Non tutti siamo capaci di risolvere i traumi da soli, molti ricorrono agli psicologi, e tanti non risolvono nemmeno con anni di terapie. La mente umana è misteriosa e ancora, per molti aspetti, insondabile; io ho solo raccontato uno dei tanti modi di reagire davanti alle difficoltà. 

Egle: E l’orfano da sempre lo releghiamo alla infelicità del collegio o della adozione? 

Adelaide: L’infelicità, di solito, è relegata al collegio perché lì si percepisce più gravemente l’assenza dei genitori (gli operatori si occupano degli orfani, li accudiscono, li rispettano, ma di fatto non li amano), mentre nell’adozione la presenza, seppure surrogata, c’è. Naturalmente, poi dipenderà dal rapporto che si instaurerà tra i genitori adottivi e il bambino a far sì che anche lì non nasca l’infelicità (anche in questi casi le reazioni sono le più diverse). È risaputo, pure nel migliore dei casi, l’adottato ha sempre un fondo di sofferenza che rimanda all’abbandono quindi al mancato amore dei genitori biologici. Si dice sempre quanto sia difficile oggi fare i genitori, ma io dico che ancor più difficile, oggi, è essere figli. Questi ultimi vivono una nuova solitudine, quella della presenza assente. Entrambi i genitori sono oberati di problemi (il lavoro, la necessità di avere i propri spazi…) e manca loro il tempo da dedicare ai figli. Purtroppo, sono convinta del fatto che la migliore qualità nel rapporto familiare sia la quantità di tempo che si trascorre insieme. Se non ci si “frequenta” si perde la confidenza, ła complicità, si finisce per non riconoscersi più. Questo non significa stare appiccicati ai figli h24, ma se si fanno troppe cose il tempo per loro è quello che ne soffre di più, ciò accade perché incoscientemente si pensa che il rapporto con loro sia comunque al sicuro. Invece non è così. Un figlio è un uomo che domani si muoverà nella società, il suo comportamento inciderà, e a volte sarà anche in modo determinante, su di essa. Non si tratta di addossare tutta la colpa alla famiglia, ma buona parte – a mio parere – sì. Equilibrio, stabilità sentimentale, esempi di collaborazione e altruismo si sviluppano per prima in seno alla famiglia. Anche il fatto che ci siano troppi figli unici apporta un certo “d’anno” alla società. Il figlio unico ha meno esperienza nel relazionarsi e sperimentare l’affetto disinteressato e collaborativo (il libro tocca anche questo aspetto). In ogni caso, non ci comportiamo tutti alla stessa maniera, e io ho solo raccontato uno dei tanti modi di reagire davanti alle difficoltà. Ma vorrei aggiungere che questo libro non è dedicato solo a chi fa fatica a superare il trauma della separazione dei propri genitori, ma ai genitori stessi, ai quali dico di non arrendersi davanti alle difficoltà poste magari dall’altro coniuge. Il legame affettivo con il figlio va tutelato e curato a qualunque costo. Insegnare ad amare significa insegnare a vivere, e quando un figlio lo impara dai propri genitori, avrà nella sua vita, sempre una marcia in più.

Abbiamo tutti un contesto, quindi una storia. Per questa di Simona che ci hai raccontata grazie.