Beatrice Agnello

Apriamo il dibattito su un tema che ha molti risvolti importanti e che vede anche le donne e la sinistra divise da sensibilità diverse. Ecco un primo contributo, invitiamo tutti e tutte a partecipare con un intervento

Dico la mia sulla gestazione per altri (GPA con burocratico acronimo) o “utero in affitto” com’è chiamato con metafora efficace ma sicuramente creata per indurre una reazione di rigetto.

In Italia è vietata, ora il centrodestra ha presentato proposte di legge che mirano addirittura a metterla al bando come reato “universale”, cioè esteso anche ai cittadini italiani che vi fanno ricorso all’estero.

La conseguenza sarà che in Italia i bambini che considerano loro famiglia le persone con cui vivono dalla nascita, sia coppie eterosessuali che omosessuali, resteranno per legge senza garanzie legali e in balia di una burocrazia che complicherà parecchio la loro vita. In un sacco di guai incorreranno naturalmente gli adulti che li hanno voluti.

L’alleanza governativa, specialista nel guadagnarsi consenso lisciando il pelo del senso comune, sa di accattivarsi una maggioranza mammona che sbandiera i valori della famiglia tradizionale: anche se non sono coppie omosessuali ma molto di più coppie eterosessuali infertili a fare ricorso alla GPA, quel che suscita scandalo – presso i conservatori poco inclini alla libertà di scelta e molto alle proibizioni che rassicurano identità vacillanti – è il desiderio di gay e lesbiche di costituire un nucleo familiare.

Ma anche a sinistra e dalle parti del pensiero libertario, come era in origine quello delle femministe – ora in alcune consistenti frange convertite però al proibizionismo woke – molte voci si levano contro la gestazione per altri che farebbe della donna un corpo oggetto di compravendita e che svaluterebbe la creatività e la specialità della relazione materna.

Vengo alla mia posizione. A me la gestazione per altri non piace e soprattutto non mi piace per niente che chi desidera un figlio senta la necessità di metterci il proprio seme o il proprio ovulo.

Penso che nel volere essere a ogni costo biologicamente genitori, anche quando il corpo non te lo consente, ci sia spesso un’idea di onnipotenza rispetto alla natura, viziata dalle sempre crescenti possibilità biotecnologiche e dall’idea che con il denaro si può comprare tutto.

Io, per prima cosa, non sono affatto convinta che sia la sostanza grezza prodotta dal nostro corpo a fare un padre o una madre: il vero nodo della relazione genitoriale a me sembra quello che si stringe dopo la nascita, nella profondità dell’affetto, nel prendersi cura, nell’assumersi gli obblighi materiali e morali che comporta.

Senza svalutare in alcun modo la specialità del rapporto che si può creare (ma non sempre accade) fra la madre e la nuova vita che porta in grembo per nove mesi, ho sempre però creduto meno ai legami di sangue che a quelli affettivi, tanto più quando questi sono consolidati da un rapporto di accudimento. Tanti figli adottivi sono più amati e curati di tanti figli naturali non scelti.

Però, quali che siano le modalità di procreazione, non posso non vedere che c’è un sentimento generoso nel voler amare una creatura e rinunciare alla propria assoluta autonomia per prendersene cura. E do una valutazione positiva della nuova sensibilità che si è fatta strada in una parte non irrilevante della società allargando l’idea di famiglia a nuove forme, che mettono in primo piano il nodo affettivo e solidale e non quello ereditario e di convenienza.

La famiglia, ha avuto, come si sa, statuti differenti nella storia e nelle diverse culture, e predominanti rispetto al legame affettivo sono state le motivazioni economiche, patrimoniali, di protezione sociale e di status. Sono questi aspetti che ne fanno oggetto di interesse per lo Stato, ma per la sensibilità sociale dell’ultimo secolo e mezzo, che la vuole soprattutto fondata sui sentimenti e non sulle questioni di interesse, la famiglia è anche oggetto di molte ipocrisie, che tendono a nascondere gli aspetti più prosaici e la realtà concreta.

Già negli anni Settanta però un manifesto della rivista Re Nudo affermava “la famiglia è ariosa come una camera a gas” e da un pezzo era conclamata la crisi del suo modello standard, pronto a nascondere le magagne con il motto “i panni sporchi si lavano in casa” e a giustificare ogni egoismo antisociale con il “tengo famiglia”. Oggi il vecchio nido d’amore è sempre più spesso lacerato dagli egoismi e dalle labilità individuali, benché tenuto insieme dal bisogno di sicurezza aumentato per la difficoltà di sopravvivere in un mondo con sempre meno certezze.

Bene, io credo che alcuni dei cambiamenti culturali in atto – in una vasta parte di popolazione dei paesi con una sufficiente libertà – consentano proprio adesso che sia il sentimento solidale e non l’eredità genetica, su cui gli interessi economici e le ambiguità poggiano, a stringere un legame che la società deve proteggere e non avversare.

Credo che l’atto veramente finale della cultura patriarcale possa essere questo, una famiglia non legata a ruoli stabiliti sulla base di un ordine sociale che decide che cosa deve appartenere al maschio e che cosa alla femmina – ai bambini regaliamo eroi di plastica superpotenti e alle bambine bambolotti con il ciuccio – ma sulla base delle identità molto più complesse che ogni essere umano ha, al di là della scatola identitaria preconfezionata dentro cui lo costringono regole esogene.

Credo sia tempo che la definizione di famiglia possa essere estesa oltre, possa essere attribuita anche a nuclei comunitari solidali e di forte affettività, nuovi rispetto al modello unico vigente, e che lo Stato debba solo registrare l’impegno che i suoi componenti prendono fra di loro, tutelando in ogni caso i soggetti deboli, cioè chi è economicamente dipendente e soprattutto i bambini e i ragazzi. Quindi pretendendo anziché vietare che siano considerati figli a tutti gli effetti anche quelli non “legittimi”, secondo la vecchia patriarcale definizione, né “naturali”.

Alla testardaggine biologica, che considera la genitorialità indissolubilmente legata alla genetica, vedo solo un’alternativa realistica, bella e generosa: rendere le adozioni una pratica percorribile con facilità, al contrario di come è oggi.

Credo che questo ridurrebbe di molto il ricorso alla “gestazione per altri”, che comunque anziché con un proibizionismo sanzionatorio ancora più severo sarebbe da affrontare con la totale depenalizzazione.

Lo Stato dovrebbe riconoscere la realtà dei fatti anziché accrescere il numero degli orfani e rispettare la libertà di scelta personale, anziché impancarsi a giudice in una sfera privata che non gli compete, soprattutto oggi che la crisi del nostro vecchio mondo richiede una grande apertura a soluzioni e sensibilità nuove. Fra l’altro, abbastanza spesso la maternità surrogata non ha un corrispettivo economico, ma anche le donne che accettano di farsi portatrici per soldi hanno il diritto di disporre del proprio corpo come credono, così come quando scelgono di esercitare il mestiere più antico del mondo. Per me “l’utero è mio e lo gestisco io” significa anche questo.

Naturalmente, parlo di adulte consenzienti (sebbene non benestanti) e non di donne oggetto di tratta e di ricatto.

L’adozione, comunque – nodo fondamentale di un’idea di famiglia differente – è certamente un atto d’amore e per questo mi pare praticamente e simbolicamente importantissima e da favorire in ogni modo, anziché mantenere il percorso a ostacoli che comporta oggi o addirittura accentuarne la difficoltà in omaggio alla fierezza genetica ed etnica di chi vanta di essere “una donna, una madre, un’italiana”.

Le leggi devono accompagnare i cambiamenti che si manifestano nel corpo sociale e non fare da argine conservatore rispetto alle nuove sensibilità.

Che mille famiglie fioriscano dunque, anche senza che ci siano geni comuni a sancirne la legittimità. Probabilmente, essendo garantite da un libero atto di scelta, saranno un antidoto alle grandi solitudini contemporanee, che non risparmiano per nulla chi è formalmente unito dal sacro vincolo della tradizione.