Eleonora Chiavetta 

Parlare di giardini e della rappresentazione dei giardini nella letteratura può sembrare una strana operazione in un momento storico come quello che stiamo vivendo in cui le certezze sono molto poche e per nulla rassicuranti e in cui soprattutto siamo attaccati quotidianamente da immagini e notizie di violenza, morte, guerra, distruzione. Da sempre, tuttavia, il giardino è metaforicamente, ma non solo, uno spazio di resistenza a tutto ciò. Nel suo lungo poema The Garden [Il giardino] (1946), composto dagli inizi del 1939 fino al 1945, in un periodo coincidente con la seconda guerra mondiale, la scrittrice inglese Vita Sackville-West, affermava “Piccoli piaceri devono emendare grandi tragedie/dunque di giardini nel pieno della guerra/io con coraggio parlo”, aggiungendo che nei giorni in cui “tutte le minuscole persone/sono state afferrate e scosse da una più grande mano/e hanno vissuto come non hanno mai vissuto prima/ su un piano che non riuscivano a capire/e annaspando respiravano[…]”, lei osava scrivere “versi quasi timidi”, osava trovare “in un mondo smarrito/un mondo piccolo, un piccolo mondo perfetto” e negli appunti sui margini del manoscritto troviamo le parole : “Coraggio nelle avversità . Risolutezza a […]non soccombere.”

EUTOPIA. GIARDINI REALI E IMMAGINARI TRA SETTECENTO E NOVECENTO

fotografia di redazione

 

Anche gli scrittori di lingua tedesca di cui si occupa in questo libro la germanista Margherita Cottone – Goethe, Bettina Von Arnim, Rilke, Hoffmannstahl, Trakl, Thomas Mann –  che non soltanto discussero teoricamente di giardinaggio, ma se ne occuparono praticamente, che abitarono il giardino e ne fecero metafora nelle loro opere letterarie, vissero in epoche di guerra, dalla rivoluzione francese, alle guerre napoleoniche, alla prima e alla seconda guerra mondiale. Perché il giardino, come luogo dove germoglia la vita, rappresenta una separazione tra noi e il caos, un luogo dove comunque abbiamo la sensazione di controllare la natura che ci circonda, un recinto protetto, come dice Venturi Ferriolo. 

La raccolta di saggi di Margherita Cottone si chiama, per l’appunto, Eutopia, con un termine coniato da Thomas More che si oppone all’altro termine, ‘utopia’, sempre da More inventato, perché laddove l’utopia è spazio “irraggiungibile, chimerico”, in quanto non luogo, ‘eutopia’ indica il ‘buon luogo’ “uno spazio possibile e realizzabile cui l’umanità deve tendere”. (xiii)

In maniera accurata e raffinata al tempo stesso, Cottone, che da decenni si occupa di questa tematica, ci conduce in un viaggio coinvolgente che ci fa scoprire l’evoluzione del concetto di giardino, a partire dall’identificazione tra giardino e paradiso terrestre elaborata fin dall’epoca medievale, che nel Rinascimento perderà la sua valenza cristiana e, secolarizzata, si trasformerà in Arcadia, modello sia letterario che pittorico, fino ad arrivare alle concezioni del giardino durante quello che verrà definito ‘il secolo dei giardini’, ovvero il Settecento In quel secolo, infatti “per la sua capacità di congiungere in sé natura e arte, natura e cultura, il giardino diventa,[…]lo spazio privilegiato in cui può avere luogo quest’utopica riconciliazione con la natura non più sottomessa alla violenza dell’uomo, che di essa invece deve rispettare le leggi e seguire le regole, all’interno di un’articolata e nuova concezione dell’estetica in cui l’arte non si deve limitare a essere semplice imitazione della natura ma suo abbellimento, arricchimento e idealizzazione.”(p.2) 

E’ in Inghilterra e in Francia che nasce il dibattito sull’arte dei giardini, che coinvolge teorici, filosofi e letterati. Cottone, dunque,  pur privilegiando la ricaduta di tale dibattito sulla cultura tedesca, affronta autori quali Addison, Pope, Walpole, Rousseau, e sottolinea la circolarità feconda delle loro diverse concezioni. Netta è la contrapposizione tra il giardino formale alla francese e il giardino paesaggistico all’inglese. L’uno, secondo Rousseau, con la sua insistenza sulla formalità e la simmetria, diventa simbolo di usurpazione, violenza sulla natura e vanità umana, laddove i concetti di usurpazione e violenza sulla natura risuonano quanto mai attuali alle nostre orecchie, mentre l’altro, apparentemente, lascia libero corso all’asimmetria e all’irregolarità della natura. 

Dando un taglio originale alla sua raccolta, Margherita Cottone unisce la presentazione dei testi degli esperti teorici sull’arte del giardino, alla realizzazione di giardini ispirati a tali testi, e alla presenza nelle opere letterarie, oltre che pittoriche, sia delle teorie sia della loro pratica applicazione. I saggi, dunque, diventano uno strumento prezioso per chi si accosta all’arte dei giardini o per chi volesse meglio leggere i giardini storici che ancora oggi possiamo visitare in Europa.

Per quel che riguarda la Germania, l’opera più importante su tale arte fu quella di Christian Cay Lorenz Hirschfeld, La teoria dell’arte dei giardini (1779-1785), le cui idee coinvolsero, tra gli altri, Kant, Schiller, Goethe, e che portarono alla nascita del ‘giardino dei sentimenti’.

La principale fonte del giardino paesaggistico è la pittura paesaggistica, laddove William Kent, pittore e architetto inglese, libera dai formalismi il giardino e lo fa diventare una pittura vivente di paesaggi, un susseguirsi di vedute, di scene pittoriche con rovine, monumenti, costruzioni allegoriche, che dovevano stupire chi il giardino visitava. Trasferito in Germania, il giardino ‘pittorico’ si identificherà con il giardino ‘sentimentale’ , dove, spiega Cottone, non era tanto importante la bellezza delle scene ricostruite che si avvicendavano nel giardino, “per cui si passava dal paesaggio dell’antichità classica, al medioevo tedesco, al paesaggio stürmeriano e il suo culto del genio[…] quanto il loro significato e la capacità di produrre emozioni e sentimenti elevati che ben precisi modelli letterari ispiravano: dal Werther di Goethe gli ideali di umanità del classicismo winckelmanniano, a Klopstock, Herder, Rousseau”. (p.7) Il legame tra giardino e letteratura diventa allora fortissimo. 

Un giardino è necessariamente legato alla nozione di tempo e il concetto del tempo e dell’importanza del ricordo lo troviamo nel saggio su Bettina Brentano e il suo romanzo epistolare, Il carteggio di Goethe con una bambina, pubblicato nel 1831. La natura è lo spazio che Bettina preferisce per esprimere il suo mondo interiore. La natura e i giardini sono per lei fonte di ispirazione, perché sollecitano tutti i sensi. Già Addison aveva sottolineato questo rapporto tra gli effetti di un paesaggio e l’immaginazione, la creatività spirituale. Bettina visita e soggiorna in molte case con giardini e da tutte queste esperienze che lei tesaurizza scaturiscono le sue metafore botaniche e le sue descrizioni, con cui cerca di coinvolgere chi legge, esprimendo il senso di libertà ed eternità che avverte. Sono giardini dell’amore e il giardino di Goethe a Weimar, che lei frequentò bambina accanto a un Goethe ormai anziano, è quello a cui ritorna nel ricordo e che sente come luogo di forte crescita spirituale, il luogo in cui si è formata . Diventa, così, quel giardino un parco mitico dove è nata la sua venerazione per Goethe e che considera un luogo epifanico. 

Altri saggi di Margherita Cottone indicano quanti significati può assumere il giardino in un testo letterario. È, infatti, spazio in cui convivono eros e thanatos per i simbolisti di fine ottocento e inizio novecento (e il pensiero va al profumo di rose e lillà che proviene dal giardino nel Ritratto di Dorian Gray), ma è anche il giardino incantato per il Thomas Mann bambino, un giardino di ordine illusorio, che contiene i semi della morte. Emblematico è il contrasto tra i due alberi in giardino (titolo di un suo saggio del 1930), un ulivo e un fico, dove l’ulivo è l’albero della vita e il fico quello della morte: uno rappresenta lo spirito e l’altro la natura, che non è benigna; uno è il principio solare e l’altro quello lunare, idea mitica di apollineo e dionisiaco. Solo nella conciliazione fra i due può esserci salvezza, conclude Thomas Mann, perché l’uno ha bisogno delle caratteristiche dell’altro e nella loro conciliazione il giardino può diventare terra di un nuovo umanesimo. 

Molto interessante è il capitolo in cui si affronta il tema dell’esotismo, della cineseria, che investì tutta la cultura europea nel diciottesimo secolo, da Brighton a Palermo, e che ebbe ripercussioni anche nella creazione dei giardini. La Cina era arrivata in occidente attraverso le incisioni del gesuita Matteo Ripa che mostravano vedute di ville e giardini dell’imperatore, ma molta importanza ebbe l’opera di William Chambers che già nel 1761 fa costruire un’alta pagoda cinese nei giardini di Kew a Londra e che nel 1772 scrive una Dissertation on oriental Gardening, subito tradotta e diffusa in Francia e Germania, introducendo il cosiddetto giardino anglocinese.

Al di là dell’inserimento di pagode e templi e quant’altro nei giardini, la caratteristica che si apprezza dei giardini cinesi è il fatto che sia asimmetrico, abbia una asimmetria pittoresca che imita la natura, con linee curve invece che dritte, e che dia importanza all’elemento dell’acqua, creando laghetti e ruscelli. Addison ammira i giardini anglocinesi perché ‘naturali’ e perché gli alberi, non costretti dall’arte topiaria, non assumono forme geometriche, ma crescono liberi. Goethe è, invece, piuttosto critico nei confronti della moda anglocinese perché non crede nella spontaneità che questi sembrano incarnare, e perché il sentimentalismo suscitato da pagode e simili elementi rende la natura più falsa e quasi grottesca.

Più avanti negli anni però lo scrittore svilupperà un interesse differente e più positivo verso la cultura cinese e in essa ricercherà ‘l’universale umano ’, ovvero la comune matrice di tutti i popoli. Lo colpisce il ruolo che la natura e il paesaggio hanno per quel popolo:  “da loro la natura esteriore convive sempre con le figure umane.”, afferma,  “Si odono sempre i pesci rossi sguazzare negli stagni, gli uccelli cantare continuamente sui rami, il giorno è sempre sereno e luminoso, la notte sempre chiara; si parla molto della luna che però non cambia il paesaggio, la sua luce è chiara come quella del giorno.” (pp. 82-83) 

Nel 1827 Goethe pubblica un ciclo di liriche che sono un vero e proprio omaggio verso la lirica e la cultura cinese e in qualche modo si appropria di queste forme anche se, sottolinea Cottone, i suoi modelli resteranno sempre gli antichi greci. Si tratta di quattordici liriche brevi, espressioni della curiosità e apertura mentale del poeta, che nel titolo vengono presentate come cinotedesche e che seguono il ritmo delle stagioni e dello spazio temporale delle giornate. In realtà, viene citata soprattutto la sera e le stagioni sono solo tre, la primavera, l’estate e l’autunno. Tutte le liriche hanno come centro un giardino, che è il luogo dove si rifugia il saggio, dove vivere tranquilli senza i richiami della vita pubblica. (p.85) Il giardino è il luogo dell’attesa e della speranza in primavera, il luogo che prelude al distacco in estate, mentre l’autunno è il tempo in cui ci si rende conto della giovinezza passata. La parola finale, tuttavia, non invita alla malinconia, ma a vivere nel momento e nel luogo in cui siamo, dando così senso alla nostra esistenza.

Queste brevi liriche, che hanno assimilato lo spirito oltre che la forma delle poesie cinesi, si affermano come un’espressione di comunione di tutta l’umanità, di interezza, di consapevolezza di ciò che regola il mondo di cui facciamo parte. Un’anti separazione, un’anti discordia nello spazio simbolico del giardino.