Beatrice Agnello

 

Sono rimasta senza parole davanti agli stupri di Palermo e Caivano, massacri di ragazze e bambine senza difesa. Non sono atrocità nuove, ma sono sempre più frequenti e non hanno a che fare solo con antiche brutalità.

Ma sono senza parole anche di fronte alle reazioni che sono seguite, da parte di persone che riteniamo antitetiche alla cultura della violenza. Voglia di giustizia sommaria, di legge del taglione, di rappresaglie con torture analoghe a quelle subite dalle vittime. Chiedono la castrazione anche persone che in genere reclamano il politically correct e alcune celebrità amate a sinistra: una richiesta che una nota regista definisce “provocatoria”, non accorgendosi neppure che la “provocazione”, sebbene abbia toni ancor più truculenti, è un po’ spuntata perché si allinea a quanto già proposto dal ministro Salvini. Prospera sui social la ferocia “dei buoni”, contrapposta ma speculare alle voci scomposte di chi fa il tifo per i ragazzi rovinati da “una puttana che se l’era cercata”.

Perché si resta senza parole? Perché le parole che ti vengono in mente si affollano come il groviglio di strade che portano a un simile abbrutimento. Chi ne vede una, chi ne vede un’altra, chi addita un colpevole chi ne addita un altro, e le voci in rete, le trasmissioni radio e tv ti sembrano tutte girare intorno all’incommensurabilità di un male che ti appare senza nome perché di nomi ne ha troppi. 

Avrà ragione chi dice che la colpa è della vecchia cultura patriarcale che dà i suoi strattoni anche se, o forse perché, moribonda? Chi dice che la libertà e il protagonismo delle donne terrorizzano il maschio più debole portandolo a un’aggressività che la vigliaccheria gli rende più rassicurante esercitare con il supporto del branco?

Avrà ragione chi dice che si tratta della nuova subcultura, in cui ti senti potente non quando laceri le carni della vittima ma quando il filmato che lo testimonia va in rete, quando ti vedono sul display mentre ti esibisci nella bella impresa a favore di obiettivo?

Avrà ragione, cioè, chi attribuisce la responsabilità al vecchio che stenta a morire o al nuovo che ci fa smarrire il senso del nostro essere corpi e anime e non immagini inconsistenti? 

Molto interessante a questo proposito quel che dice Cesare Moreno, maestro di strada nel napoletano (Corriere del Mezzogiorno, 26.08): “la violenza non è dettata dal soddisfacimento della pulsione erotica. Credo (…) che il sesso non sia il fine ma il mezzo per compiere l’azione memorabile (…), quella che (…) mi farà esistere davvero (…) I ragazzi sono completamente staccati dalla realtà; vivono in universi chiusi in cui l’unica finestra sul mondo è virtuale (…) e non è colpa dei social. La causa è la solitudine spaventosa dei ragazzi che non trovano altro modo per essere significativi se non nel danneggiare l’altro”. 

Mi viene in mente il caso dei due ragazzi che nel 2016 a Roma torturarono a morte Luca Varani; sulla vicenda scrisse un libro abbastanza illuminante Nicola Lagioia (la città dei vivi, Einaudi).

Avrà ragione Marina Terragni (Il Foglio, 24.08), quando, sottolineando che “C’è gente che si vuoterebbe le tasche per poter dare un’occhiata al video di Palermo”, riporta dal Guardian le parole  di Billie Eilish, ventunenne autrice di un brano per la colonna sonora di “Barbie”, “popstar da 70 milioni di ascolti mensili su Spotify”: “di queste storie non capiremo niente se non diventeremo consapevoli di come il cyberporn stia cannibalizzando da troppo tempo il libero e gioioso immaginario perverso-polimorfo di bambine e bambini dai 10 anni in su per imporre una sessualità fatta di dolore fisico, umiliazioni e sottomissione ‘consensuale’.”

Billie Eilish parla anche della sua esperienza personale: “Credo che il porno sia una sciagura. Ne guardavo parecchio. Ho iniziato quando avevo qualcosa come undici anni. Credo che mi abbia distrutto il cervello, mi sentivo devastata. Le prime volte che ho fatto sesso non dicevo no a cose che non mi avrebbero fatto bene. Le facevo perché pensavo di doverne essere attratta”. 

Avrà ragione chi addita le colpe di coloro che dovrebbero farsi carico di una convivenza civile regolata dal diritto e non dominata dalla sopraffazione? Chi sottolinea le mancanze dello stato, del governo, dei comuni? A Palermo, sappiamo che pezzi interi di città sono in mano a spacciatori, ad alcool e droghe vendute a pochi euro a ragazzini abbrutiti dal loro nulla contro cui niente può, non le famiglie e neanche la scuola, lasciata sola a combattere una battaglia troppo grande per le sue forze. 

Forse hanno ragione tutti, la diagnosi è complessa e la malattia che ci minaccia diffusa. Ho detto “il loro nulla”, riferendomi a chi cerca lo sballo alla Vucciria, ma non parlo solo di ragazzi che vivono in contesti sociali difficili, parlo anche di quelli “di buona famiglia”.

E forse tutti, giovani e adulti, soffriamo, innocenti o colpevoli, di una deprivazione. Viviamo confusi in un mondo troppo veloce e pieno di merci tossiche per l’anima e per il corpo; in un presente debordante che divora junk food, dove ci perdiamo nel chiasso e nel bisogno compulsivo di consumare senza abbandonarci mai ai suoni del silenzio né affrontare il lavoro del pensiero; in una solitudine direttamente proporzionale all’incapacità di ascoltare l’altro e perfino noi stessi, direttamente proporzionale alla voglia di stare su un palcoscenico anziché nell’intimità delle relazioni umane; tutti viviamo di certo, ma questo per i giovani è ben più terribile, nel vuoto di un futuro che sia anche un faro per illuminare la via e i nostri luoghi oscuri.

Ma io sono abbastanza anziana per ricordarmelo, il futuro. E non mi riesce di adottare il primo dei due modi individuati da Calvino per non soffrire dell’inferno che noi viventi formiamo stando insieme, “accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”. Quindi non mi resta che il secondo: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Per esempio, ho fiducia nelle persone che, in conversazione fra loro, imparano a raccontarsi e a toccare l’anima degli altri e la propria senza cedere al lamento e alla rabbia scomposta ma cercando le parole per dirsi davvero; e mi piacerebbe che a scuola nascessero gruppi di incontro non per imparare l’educazione sessuale o sentimentale (un’istruzione tecnica la prima, probabilmente una predica che lascia il tempo che trova la seconda), ma per imparare a parlare di sé senza troppe menzogne. 

Do fiducia a quei gruppi di donne che promuovono azioni comuni e non perdono tempo “a delegittimare il lavoro delle altre donne” e a “dare patenti di femminismo”. Sono d’accordo con Michela Murgia, quando, constatando la “brutta abitudine ormai diffusa nel mondo femminista di certificare il femminismo altrui”, dice che è “un errore politico che non ci verrà perdonato. I nemici sono altri e stanno facendo le leggi”. E credo in quel che Simona Mafai voleva che fosse il nostro Mezzocielo: uno spazio per accogliere voci diverse e non un pensiero unico.

Do fiducia ai gruppi di uomini che fanno “autocoscienza” sui loro rapporti con le donne e promuovono “una cultura che superi il patriarcato e una società liberata dal maschilismo e dal sessismo” (www.maschileplurale.it).

Ho fiducia persino che in qualche bolla dei social si possano scambiare pensieri, sorrisi, voli dell’immaginazione e non vanaglorie, imprecazioni e contumelie incoraggiate da algoritmi che premiano gli schiavi, quelli che lottano come gladiatori nell’arena. E mi piacerebbe se fossimo sempre di più a usarli così i social, meno compulsivamente, lasciando spazio ogni tanto al respiro e al silenzio.