Bianca Stancanelli

Agli italiani piace specchiarsi nello sguardo dei media stranieri. È l’indizio di un’identità debole, mai del tutto definita, fin da quel “fatta l’Italia, dobbiamo fare gli italiani” che passò a lungo come il motto del dopo-Unità e non si sa neppure se mai sia stato pronunciato e da chi. L’ultimo specchio ce l’ha offerto il New York Times, con una lunga corrispondenza da Caivano, firmata da Gaia Pianigiani, che racconta «a summer of horrific crimes» che «has put a new focus on the country’s attitudes toward women» (un’estate di crimini orrendi che ha suscitato una nuova attenzione sul modo in cui il paese tratta le donne).

Nell’edizione on line il pezzo è corredato da un servizio fotografico, per lo più concentrato sui locali in rovina del centro sportivo di Caivano dove, com’è noto, due cuginette di 10 e 12 anni sono state abusate e stuprate da una banda di almeno dodici ragazzi. In una foto appare un materasso lurido, buttato per terra, per metà coperto di schifezze. Nulla dice che gli stupri siano avvenuti lì, ma guardarlo dà un brivido di sgomento. Sporcizia, abbandono e squallore dominano ognuna di queste immagini. 

La stessa sporcizia, lo stesso abbandono, l’identico squallore dell’angolo del Foro Italico dove si è compiuto il vigliacco assalto di Palermo, lo stupro dei “cento cani su una gatta” – come nel racconto di uno degli stupratori, forse più consapevole dell’enormità della violenza ma non meno vile dei suoi compari.

Simili – nell’abbandono – i fondali degli stupri. Diverse le reazioni del governo. Per decisione della presidente del consiglio, Caivano è stato trasformato in un set per mettere in scena la forza e la determinazione dello Stato – uno Stato che, nell’interpretazione della destra al governo, si esaurisce nella forza pubblica.

Martedì 5 settembre quel set ha visto l’arrivo di 400 uomini e donne, poliziotti, carabinieri, finanzieri. Volenterose telecamere al seguito hanno registrato le irruzioni di agenti in assetto antisommossa nelle case. Un tg nazionale ha inquadrato l’ingresso di una squadra, armi spianate, in una decorosa cucina dove qualcuno aveva provveduto a collocare ordinatamente le sedie rovesciate sui bordi del tavolo, come si fa per lavare i pavimenti. Il bilancio del blitz, riportato dall’Ansa, recita: “sequestrati 28 grammi di cocaina, 408 di hashish e 375 di marijuana, 5 chili di sigarette di contrabbando, 44 mila euro” più armi varie. Per essere Caivano «la più grande piazza di spaccio d’Europa» (così nei bollettini della vigilia), il bottino è miserello. 

Vengono in mente i blitz antimafia degli anni Ottanta a Palermo. Ricordo ancora, nei miei anni a L’Ora, il concitato arrivo di un inviato di un quotidiano napoletano che raccontava di essersi precipitato dal Sudamerica perché avvertito che un blitz imponente stava per scoccare. Sono venute poi le stragi a testimoniare la vanità di quei blitz in favore di telecamere e taccuini.

Nessuno meglio dei siciliani sa come la “bonifica” dei territori, cara alla retorica della presidente del consiglio, non si fa con le sceneggiate. La politica spot che insegue l’attualità tentando di placare umori e timori dell’opinione pubblica e zampetta da un’emergenza all’altra, senza mai risolverne nessuna, serve solo a conquistare effimeri consensi, una pioggerella di like superficiali. 

Ma quella politica sembra oggi l’unica possibile. A Roma come a Palermo. Così, se l’edizione palermitana di Repubblica scrive del degrado del giardino di piazza XIII Vittime, il giorno stesso quel giardino viene ripulito e viene da chiedersi perché la denuncia di quel degrado e la richiesta d’intervento formulata dagli abitanti del quartiere sia rimasta per mesi inascoltata.

Non si possono aspettare gli stupri per occuparsi delle periferie abbandonate, i femminicidi per cercare rimedi nelle leggi, le campagne social per decidersi a ripulire dalle siringhe un giardinetto. 

Il rimedio vero, forse il solo possibile, è tornare alla politica come lavoro paziente, quotidiano. Una politica in cui specchiarsi senza furbizie e senza vergogna.