Su quel che accade in Israele e Palestina 

Beatrice Agnello 

Si dà per scontato che, finché c’è la guerra, non si possa sostituire Netanyahu. Non lo credo affatto, Netanyahu è il peggior premier che Israele abbia avuto, e, fra l’altro, ha favorito negli anni i successi di Hamas a Gaza per indebolire l’Autorità nazionale palestinese e separare il popolo della Striscia da quello della Cisgiordania per meglio combattere entrambi. Le teste pensanti di Israele lo avversano da tempo e ormai il suo consenso sembra ridotto ai minimi termini.  

Deporre Netanyahu è la prima cosa che si dovrebbe fare in Israele. Come si fa a non sollevarlo dal suo incarico se scavalca da una destra militarista persino il suo capo di stato maggiore, che, al contrario di lui, il carburante per gli ospedali a Gaza vorrebbe farlo arrivare? Addirittura, generali americani come Petraeus avvertono preoccupati che non si riconoscono nelle operazioni che sta compiendo a Gaza. Non sappiamo se sgominerà Hamas, ma il prezzo è comunque troppo alto e un capo deve essere capace di vincere la guerra, non una battaglia. Lui la guerra l’ha già persa, infangando i principi umanitari che stanno al centro della civiltà in cui ci riconosciamo, il rispetto dei diritti dell’uomo, ed esponendo il suo popolo all’odio. Come non tenere presente che a Vienna, a Parigi, a Roma, risorge l’antisemitismo?  

«Dobbiamo dimostrare al mondo che non eravamo tutti come lui», disse von Stauffenberg quando tentò l’attentato, purtroppo fallito, del luglio 1944, a guerra non ancora terminata, contro Hitler. Spero che non si debba arrivare a questo, ma confesso che, se non ci fosse altro modo, uno Stauffenberg più fortunato a Tel Aviv, personalmente non mi dispiacerebbe. I diritti umani confliggono spesso con quelli di un singolo uomo al potere.  

Ma la soluzione per metterlo fuori gioco deve venire dal suo stesso campo, se invece è il terrorismo islamico, che lucra sulle grandi ingiustizie subite dai palestinesi, a minacciare Israele nel suo stesso diritto a esistere, non fa, consapevolmente, altro che buttare benzina sul fuoco e rinvigorire il residuo credito di un leader impresentabile.  

 

Circola molto, in questi giorni, sui social e in tv, la parola vendetta, persino fra commentatori che sentiamo vicini e che non giustificano affatto le carneficine, ritengono però ammissibile una vendetta proporzionata al danno subito. Ma il termine “vendetta” ha qualcosa di ripugnante, come “legge del taglione”, ha qualcosa di elementare e brutale che non soddisfa affatto la natura complessa degli esseri umani. La parola, da quelle parti, scalda il cuore ben più di giustizia: la rabbia eccita, mentre non lasciare che il primo impulso sia l’unico a entrare in gioco, accecandoci, richiede la sublimazione di quel primo impulso, non per eliminare l’istinto ma per coinvolgere la persona nella sua interezza e considerare le cose nella loro complessità.  

Il contrario di “vendetta” non è “perdono”, è affermare la propria differenza e agire guardando più lontano dell’altro. Quando entri nella spirale della vendetta, accetti il tavolo di chi ti ha offeso e lo rendi padrone del gioco. Mentre è quel che tavolo che devi rovesciare.  

 

Credo sia per questo che quella delle donne è «l’unica rivoluzione non fallita del Novecento», come dice Eric Hobsbawm. Perché per sua natura, non vuole vendetta e annullamento dell’altro, ma una vita in comune diversa. Ed è per questo che oggi il movimento delle donne iraniane è la notizia migliore che ci viene in mezzo ai fuochi del Medio Oriente e dintorni. 

 

Non si può stare al fianco delle donne iraniane e contemporaneamente giustificare Hamas.  

Le donne iraniane affrontano carcere, tortura e morte per lottare contro l’uso della legge islamica, la Sharia, allo scopo di mantenere o conquistare il potere attraverso il terrore: l’uso che ne fa Hamas, come abbiamo ben visto nelle foto e nei filmati del 7 ottobre; l’uso che ne fanno gli ayatollah di Teheran e i talebani afghani, non meno orribile nella sostanza di quello degli sgozzatori dell’Isis.  

Fra chi, in Occidente, manifesta per la pace prendendosela con Israele senza una parola contro Hamas, con slogan come “Non sono terroristi, sono liberatori” riferito a chi ha massacrato i ragazzi pacifisti del rave, ci sono tanti che in odio all’Occidente stesso sono stati molto reticenti nell’appoggio alle iraniane, ma ci sono anche quelli che hanno gridato con loro Vita, donna e libertà. Questi secondi dovrebbero riflettere sulle loro contraddizioni.  

E bisognerebbe ricordare le terribili immagini dell’abbandono americano dell’Afghanistan, dopo il quale le donne che avevano conquistato qualche agibilità della vita nel loro paese sono state rinchiuse in casa. Vietata la scuola, vietato lavorare, vietato uscire da sotto il burqa. Ricordate gli afghani dissidenti che si attaccavano alle code degli ultimi aerei per volare verso il nostro più accettabile mondo, tanti caduti su quel suolo mentre disperatamente tentavano di staccarsene? Agli americani, che hanno lasciato al loro destino queste donne e questi uomini dopo averli illusi di aver “esportato la democrazia” nel loro paese, non si può perdonare il tradimento. L’aveva deciso Trump, lo ha eseguito Biden, non più in grado di tenere il campo e la sua opinione pubblica insieme. Ma ricordiamoci che è qui, verso di noi, che da Kabul avrebbero voluto volare. 

 

Nel modo in cui in Occidente discutiamo di Israele e Palestina e quando manifestiamo per Gaza, avverto una rappresentazione delle cose che riporta indietro l’orologio della storia al mondo bipolare dominato da USA e URSS o a quello seguito al crollo del comunismo sovietico, con gli USA poliziotto planetario. 

Forse è il desiderio di semplificare una realtà imprendibile. 

Eppure, benché proviamo a semplificare arretrando verso il già visto, tutti percepiamo, fin dall’inizio di questo secolo, una nuova situazione. Ci sentiamo in balìa di un potere finanziario sovranazionale, incontrollabile, cinico, senza altra ideologia che il denaro, che fa il bello e il cattivo tempo in borsa e nel mondo, rovescia governi nei paesi più instabili ed è un serpente di cui non si intravede la testa, ammesso che una testa ce l’abbia. Usa strumenti digitali, impersonali e impalpabili, tanto quanto concretissimi mitragliatori e primordiali machete. Sembra un mostro dalle tante teste, non il nemico unico da incolpare di tutti i guai che ci capitano, dal Covid alle guerre, che immaginano i complottisti, un nemico occulto per tutti ma non per loro. 

Sembra piuttosto un insieme eterogeneo in fibrillazione, unito solo dal delirio di potere. Ne avvertiamo la presenza quando emergono sulla scena personaggi come il sudafricano – cittadino canadese e naturalizzato statunitense – Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo secondo Forbes, che lancia razzi mirando a fondare colonie su Marte; come il russo Prigožin, oligarca, politico e comandante mercenario, nuovo colonizzatore dell’Africa ucciso da Putin per aver troppo osato; spesso ha il volto impenetrabile di un signore del capitale che opera dall’estremo Oriente, sempre tanto misterioso da lasciare nell’ombra le sue fortune.  

Il mondo non è più bipolare e nemmeno unipolare; la guerra non è più fredda ma sempre più scatena fiamme dove le contraddizioni covano sotto la cenere o esplodono da nuovo, influenza comunque la vita anche dei paesi che la guerra calda non ce l’hanno in casa e si sa dove comincia ma non fino a dove arriverà, soggetta com’è a incidenti della storia senza capo né coda molto più di quanto non fosse prima. Quel che accade sulla terra è in qualche modo sempre globale – e globalizzati siamo noi tutti davanti a un display che non distingue fra bufale ed elementi di realtà – non ci sono “grandi narrazioni” in contrasto dialettico e perciò decifrabili, pullulano invece piccole narrazioni tribali e grandi imbrogli cinici. E non ci sono più poliziotti planetari che tengono a bada gli eventi. 

 

Verrebbe da dire, con Montale, “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti / (…), / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. 

Se non fosse che ogni tanto movimenti impetuosi lanciano messaggi semplici che ci richiamano ai fondamentali indubitabili della convivenza umana, come le coraggiose iraniane che gridano “Donna, vita, libertà”. Qualcosa che vogliamo fortemente c’è, poggia su una narrazione grande quanto la metà del cielo, bisogna chiamarsi fuori dalle tribù per ascoltarla, saper riconoscere, con Calvino, quello che, “in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”