Fotografia Desideria Burgio

Beatrice Agnello

Chissà perché mi viene un irresistibile bisogno di parlare di Navalny ora che è stato seppellito dal turn over mediatico, che non è dissimile da un mostro divoratore e chiede sempre nuovi fatti e personaggi labili da innalzare e sacrificare sugli altari del mercato pubblicitario.

Forse, mi viene di parlarne perché leggo fra i post di Facebook dei giorni scorsi che c’è chi, anziché condannare senza se e senza ma quello che è di certo un assassinio di regime, inchioda Navalny alle idee della sua giovinezza nazionalista con più di un’ombra di razzismo. Per lo più persone della mia età, che non credono che nella vita si cambi. E forse non lo credono perché, benché il mondo sia parecchio cambiato dagli anni 70 della nostra giovinezza, si sono tappati gli occhi per non vederne i rivolgimenti, che sottolineano anche i segni della vecchiaia sulle loro facce. 

Non sono pochi i commenti di antichi “compagni” che mettono in campo un vasto repertorio di volgarità e sono andati a cercare chissà dove persino foto che attesterebbero che Julija, sua moglie e attuale riferimento mediatico dell’opposizione a Putin, è una “vedova allegra” che se l’è spassata mentre il marito era in galera. Già quel “vedova allegra” manifesta un’idea della donna degna delle prurigini più triviali dei nostri nonni, e poi chissà come fanno in tempi in cui è così facile taroccare una foto ad essere così sicuri che quella che hanno trovato nei recessi del web sia autentica. Non li sfiora comunque l’idea che, se anche Julija Navalnaya avesse avuto altre relazioni, la condivisione di idee e il dolore per il compagno di una vita e padre dei suoi figli, abbiano continuato a essere in lei e animarne la forza. 

Ma forse mi viene di parlare di Navalny per motivi più seri: perché la sua figura e il suo coraggio di fronte a una detenzione durissima e a un pericolo mortale costante ci interrogano sui modi di affrontare la vita.

 

Tutti sappiamo che è stato un acceso nazionalista. Ma non è rimasto sempre lo stesso, Aleksej Navalny, nei suoi solo quarantasette anni di vita. 

MASHA GESSEN (saggista e attivista russa per i diritti LGTB) ha scritto: “Inizialmente era collocato su posizioni etno-nazionaliste, a volte apertamente xenofobe. Ha sostenuto il diritto a possedere armi e la repressione dei migranti. Ma ha trovato la sua agenda e la sua voce politica nel documentare la corruzione. Ha costruito un movimento basato sulla premessa che i cittadini, anche in Russia, potrebbero e dovrebbero esercitare il controllo sul modo in cui viene speso il denaro pubblico. Negli anni successivi ha abbandonato il nazionalismo etnico”.

 

Non è facile decifrare quest’uomo. Nel 2013, ha dichiarato: “La mia posizione è basata esclusivamente sulla legge e la Costituzione, dove è scritto che le manifestazioni pacifiche non possono essere vietate. … Non intendo dire no ai gay pride, alle “marce russe” (quelle degli ultranazionalisti, nota mia) o qualsiasi altro evento pubblico. Chiunque voglia uscire e marciare senza violare l’ordine pubblico, potrà farlo quanto gli pare. È la mia posizione più importante”.

 

Ma spesso ha parlato anche di problemi sociali del suo paese malato: “Abbiamo 20 milioni di persone che vivono sotto la linea della povertà. Decine di milioni che vivono senza la minima prospettiva per il futuro […]. A Mosca la vita è sopportabile, ma basta spostarsi di 100 chilometri in qualsiasi direzione e tutto è in uno stato disastroso”.

 

Aveva una sua religiosità: “Sono un credente. Mi piace essere cristiano e membro della Chiesa ortodossa, mi piace sentirmi parte di qualcosa di grande e universale. Mi piace il fatto che ci sia un’etica distintiva e un certo ascetismo”.

 

A me Navalny sembra un uomo profondamente radicato nella sua grande Russia (è nato a Butyn, pochi chilometri  da Mosca, nel bacino del Volga), in quelle sterminate pianure e fredde immobilità che sono state capaci di fermare Napoleone e Hitler; radicato nella cultura di quella madre che ha percorso migliaia di chilometri per andare a visitarlo nelle sue molte prigioni ed è stata tanto forte da ottenerne il cadavere da Putin; ma anche un uomo assetato di una vita vera che sfugge di mano, persa nelle nebbie di politiche ciniche e corrotte, un uomo sensibile all’indignazione e all’orgoglio, inquieto. Un russo nel profondo, comunque, come Giovanni Falcone era siciliano nel profondo, e per questo sapeva quale registro usare per convincere Tommaso Buscetta. Navalny sapeva quali tasti toccare per muovere l’anima russa, che era anche per lui l’humus (significativa, in questo senso, la sua adesione alla Chiesa ortodossa, il suo sentirsi “parte di qualcosa di grande e universale”).  

Potrebbe essere un personaggio uscito dalle pagine di Dostoevskij, ma con i tratti di un ragazzo cresciuto dopo l’ammainabandiera del 91 al Cremlino, in un ex impero pesante ma tutto da inventare, nel mondo mobile e globale della nostra contemporaneità digitale.

 

Dice LUIGI DE BIASE (IL MANIFESTO, 02.03.24) “A volte sembrava uscito da un film degli anni Novanta: era testardo, astuto, scanzonato, aveva una vitalità tipicamente russa”. 

“Ai rami di un albero un paio di ragazzi hanno appeso uno striscione che diceva: «Putin lo ha ucciso, ma non lo ha piegato». (…) Quanti nomi oltre quello di Navalny ha scandito questa gente nel corso degli ultimi anni? Boris Nemtsov è stato ucciso a colpi di pistola in un agguato nel 2015 in pieno centro a Mosca. Ilija Yashin del partito Parnas è in carcere per avere diffuso informazioni ritenute false sulla guerra. La stessa sorte è toccata all’attivista Vladimir Kara-Murza e al politico di sinistra Sergeij Udaltsov. Dall’inizio dell’anno la pressione del governo sulla società civile si è fatta ancora più forte. La scorsa settimana un tribunale ha condannato a due anni e mezzo di prigione il premio Nobel per la Pace Oleg Orlov. Anche il direttore di Novaja Gazeta, Sergeij Sokolov, è stato trattenuto di recente dalla polizia per il modo in cui il suo giornale sta trattando la guerra”.

 

Sempre SUL MANIFESTO (E SUL SITO VALIGIABLU), MARIA CHIARA FRANCESCHELLI ci informa che, dall’inizio dell’aggressione all’Ucraina, ha lasciato la Russia circa un milione di suoi cittadini, tutti in qualche modo contrari alla guerra, la maggior parte anche alla dittatura di Putin. Citando uno studio del Centre for European Policy Analysis, li suddivide in quattro macro-categorie.

“La prima comprende giornalisti, attivisti, e membri di organizzazioni non governative. Persone con un preciso posizionamento politico, che è anche al centro del loro lavoro. Questo gruppo ammonterebbe a non più di qualche migliaio. La seconda è rappresentata dall’intellighenzia liberale urbana, in particolar modo professori e ricercatori, magari con rapporti consolidati con università, istituti, centri di ricerca e fondazioni in Europa o negli USA. (…) La terza categoria include manager e figure senior di grandi aziende, banche e imprese. La quarta e ultima categoria comprende per lo più chi lavora nell’informatica: programmatrici e programmatori, ingegneri informatici, sviluppatori, che dopo l’imposizione delle sanzioni da parte dell’Occidente non avrebbero potuto continuare il proprio lavoro, o che – se impiegati in aziende russe – possono lavorare da remoto. Questa è la categoria più numerosa, che ha visto un forte aumento dopo l’annuncio di un’ulteriore mobilitazione militare nel settembre 2022. Non si tratta, comunque, di compartimenti stagni: le motivazioni spesso si sovrappongono”. 

 

Non si sa dove possa portare una diaspora di tali proporzioni, e che coinvolge molti giovani informatici (qui ce lo domandiamo a proposito della fuga di tanti nostri giovani cervelli, lì la fuga è stata repentina e di massa). Si sa bene, invece, dov’è l’opposizione alla dittatura russa: fra assassinati, incarcerati ed espatriati (questi ultimi, Putin li ha definiti “feccia”), risulta chiaro che è stata fatta fuori. Come chiaro è che la scelta di Navalny del ritorno in patria, dopo essere scampato al primo omicidio, è quella di un uomo di tempra non comune e di un leader di grande carisma.

 

Dicono ANDREJ SOLDATOV E IRINA BOROGAN, GIORNALISTI RUSSI IN ESILIO A LONDRA, SU INTERNAZIONALE di questa settimana:

“Navalnyj era un maestro nell’uso dei social ed era spesso riuscito a battere Putin al suo stesso gioco mediatico, denunciando gli abusi e i misfatti del regime e facendoli conoscere a milioni di persone attraverso YouTube e altre piattaforme online. In questo modo era riuscito a eludere gli sforzi del Cremlino per metterlo a tacere”. (…)

“Ancora più pericolosa per il regime era la straordinaria popolarità di Navalnyj. A differenza di tutte le figure dell’opposizione attive negli ultimi vent’anni, Navalnyj era stato in grado di costruirsi un seguito che andava ben oltre le élite urbane della Russia. Aveva raggiunto persone provenienti da ogni angolo del paese (…) Ed era riuscito a far appassionare alla politica anche i giovani, che altrimenti ne sarebbero rimasti del tutto esclusi”.  

Lui sapeva che la carta da giocare era quella della corruzione del regime più che quella dell’assenza di democrazia, la Russia di democrazia ne ha avuta sempre molto poca nella storia e i russi non hanno la stessa sensibilità allo stato di diritto di paesi che fin dal 700 hanno alzato la bandiera di Liberté ed Egalitè, e sapeva che invece la corruzione dei despoti li colpisce ben di più. 

Continua il pezzo riportato da Internazionale: “Per la società russa, confusa, depressa e alla mercé di un regime sempre più repressivo, Navalnyj è stato l’unica figura unificatrice”. (…)

“Navalnyj non era certo un profeta, ma negli ultimi dieci anni, insieme a un folto gruppo di sostenitori, era riuscito a trovare il modo per superare quegli ostacoli politici che l’opposizione liberale russa aveva a lungo trovato insormontabili. Dagli anni novanta in poi i liberali russi sembravano condannati a trovare un pubblico pronto ad appoggiare le loro proposte democratiche esclusivamente nelle città più grandi, come Mosca e San Pietroburgo. (…) Il resto del paese non capiva in cosa consistesse la democrazia”. (…)

“Navalnyj ha lasciato in eredità alla Russia la sua organizzazione e i suoi militanti. È questo che conta. I sostenitori di Navalnyj non spariranno”. 

 

Me lo auguro che non spariscano, ovunque si trovino, molti davanti a un computer a migliaia di chilometri di distanza dal loro paese, altri in patria, tenuti in condizione di non disturbare la quinta incoronazione presidenziale di Putin, dopo le elezioni che si terranno dal 15 al 17 di questo mese. 

Mi auguro che la morte del leader renda più forte il suo messaggio “non arrendetevi. (…) Se dovessero decidere di uccidermi, vuol dire che siamo incredibilmente forti (…) siamo un grande potere che è stato oppresso da questi ceffi” (Dal documentario “Navalny”, di Daniel Roher).

Penso che dovrebbero augurarselo tutti quelli a cui non piacciono i gulag, i dittatori, i loro crimini, il loro cinismo. E che hanno a cuore una pace che non somigli a un deserto dove la prepotenza spadroneggia senza trovare ostacoli sul suo mortuario cammino.