Angela Lanza

Alla Casa internazionale delle donne di Roma, si è tenuto il 5 novembre un incontro per il centenario della nascita di Maria Occhipinti (Ragusa 1921 – Roma 1996), organizzato dalla Società italiana delle letterate.
Maria Occhipinti fu una delle leader del movimento anarco-antimilitarista Non si parte! di Ragusa, che lottarono contro gli arruolamenti forzati per la ricostituzione dell’esercito italiano del governo Badoglio. A Ragusa il 4 gennaio 1945, per far fuggire un gruppo di giovani rastrellati dai carabinieri, non esitò a stendersi sulla strada per bloccare il mezzo su cui venivano trasportati, pur essendo al quinto mese di gravidanza. Il suo gesto diede inizio ad una insurrezione repressa nel sangue. Maria venne arrestata e processata come istigatrice della sommossa. Dapprima fu confinata ad Ustica dove partorì e poi trasferita per due anni e in carcere. Scontata la pena, trovato un ambiente ostile nella sua città, iniziò a viaggiare e scrisse la sua autobiografia Una donna di Ragusa, con cui vinse nel 1976 il Premio Brancati. Stabilitasi a Roma, continuò a scrivere occupandosi di questioni socialmente scottanti e collaborando con gli ambienti anarchici romani.
I suoi libri sono Una donna di Ragusa, Feltrinelli, 1976; Il carrubo ed altri racconti, Sellerio, 1993;
Una donna libera, Sellerio, 2004.

Pubblichiamo l’intervento di Angela Lanza letto al convegno:

Ho conosciuto bene Maria negli anni 80 in Sicilia e l’ho accompagnata con le mie figlie Valentina e Leonora a Ustica dove lei ha percorso strade e piazze volando, toccando le pietre, ricostruendo le storie alla ricerca di tutte le persone che ricordava nel terribile periodo del confino, lì dove era nata sua figlia Marilena. E poi l’ho incontrata ancora parecchie volte ma non è di questo che vorrei parlare. Circa 4 anni fa ho scritto la sua Storia per la mia Associazione “ARCHIVIA – donne in relazione” che ha sede a Palermo. A un certo punto però quasi a storia ultimata mi sono domandata quale fosse il vero senso della sua ribellione contro gli intellettuali. Intervistata da Mirella Alloiso, in un articolo poi pubblicato su “Noi donne” dal titolo “Donne in guerra” nel 1981, Maria dice infatti: “Il problema non è l’ignoranza ma la corruzione degli intellettuali, E mi domando se vale la pena scrivere!” Eppure erano stati intellettuali di grosso calibro a portarla alla ribalta come Carlo Levi, Forcella e Paolo Alatri. Proprio mentre cercavo di capire, leggendo i racconti del “Il carrubbo”, un giorno per caso mi è capitata fra le mani un’intervista a un pescatore di Ustica. Il pescatore Mancino, chiamato così perché usava la mano sinistra, aveva 11 anni quando è arrivata Maria sull’isola insieme a tutti gli altri confinati mentre Maria nel ’45 aveva 24 anni. Mancino ricorda confusamente quel periodo e i confinati. Ma ecco quello che dice parlando del tempo di suo padre e quindi anche del tempo di Maria. “Addi tempi ogni parola che dicianu, prima la pesavano. Dopo tanti anni te la dicianu e allora ste parole avevano una tale forza ca spaccavano i muntagni!” e aggiunge “Quannu uno riceve parole accussi’, ti entrano dintra ‘ntu sangu”.
Nei racconti de “Il carrubbo” c’è lo sforzo del capire dal di dentro e si cercano le parole per dire le profonde esperienze della vita. Perché se l’esperienza non è fondante è inutile parlarne. Quindi le parole (e la scrittura!) vengono a galla solo quando si tratta di situazioni profonde e spesso tragiche. Per Maria e Mancino la parola viene usata come un utensile, così come lo scultore usa lo scalpello per scolpire la pietra. “La vita, pensano entrambi e Mancino lo dice apertamente nell’intervista, non l’ha capiri con la testa, la vita to’ a po’ solo vivere intensamente”. Entrambi sono protagonisti di tragedia e non di romanzo. E di tragedia scrivono!
Tutto il resto è vacuo e poco interessante.
Per molto tempo Maria si rifiuterà di uscire dalla tragedia e iniziare il cammino in quel territorio estraneo che era per lei la lingua italiana, adatto a gente che ha più soldi di lei o ad intellettuali che credono di essere liberi e sono invece incatenati al potere e all’ambizione. Lei vuole scrivere in modo da non perdere l’intensità e il valore di una parola che incida.