Caterina Pastura
Riceviamo la lettera di un’amica femminista da antica data, che molto volentieri pubblichiamo perché si fa delle domande che sono anche le nostre

Carissime,
ho sempre pensato che una lettera sia la forma concreta che prendono i pensieri quando cercano di venire fuori per trovare qualcuno che pensi insieme a noi. Certo un tempo quella concretezza era tangibile, era questione di sensi oltre che questione di senso: le lettere non le leggevi solo con gli occhi, le toccavi con le mani, ne ascoltavi il fruscio, il suono della carta, potevi persino sentire se avevano un odore (e la carta, l’inchiostro, sempre ne hanno uno…). Il viaggio della corrispondenza percorreva lo spazio della distanza e durava un tempo imprevedibile, sempre insidiato dal rischio di non arrivare a destinazione. Un tempo di attesa, persino di ansia, di tensione, ma anche un tempo di riflessione.

E così oggi ho deciso di scrivere una lettera – una di quelle che certe volte mandiamo solo a noi stesse – per cercare di capire insieme un’iniziativa alla quale “Non una di meno” invita a partecipare l’8 marzo, a Messina, annunciandola così: Dancing queens, se è la nostra festa, allora balliamo! (e scioperiamo).
Ora io mi rendo conto che potrà sembrarvi eccessivo, ma da quando ho letto quell’allora balliamo, non faccio che chiedermi: che vuol dire? Non sono tonta al punto da non capire cosa vuol dire «balliamo», anche perché a me ballare piace tantissimo e da sempre penso che se lo facessimo tutti un po’ di più staremmo meglio con noi stessi e con gli altri (banalità, chiedo scusa). No, non è la determinazione a ballare a suscitare la mia perplessità, la punzecchiatura del dubbio, è l’«allora», è l’ingombro dell’obbligo che si trascina dietro, l’ovvietà del conseguire a una premessa, di più, a ben pensarci, è la chiamata a farsi complici di un meccanismo, a partecipare di un ingranaggio (poco importa che possa stritolare). Più leggo la frase, più mi torna in mente l’allusione maligna all’espiazione necessaria contenuta nel bonariamente crudele «hai voluto la bicicletta? E ora pedala!». Frugo faticosamente tra brandelli di reminiscenze di filosofia, grammatica, retorica, geometria per venire a capo di quell’ipotesi fittizia: se è la nostra festa (=paradosso?), e della successiva conferma che le donne in piazza saranno chiamate a dare: allora balliamo (=doppio paradosso). A questo punto, provo a invertire la conseguenza e la premessa (abbiate pazienza, una mania è una mania…): «allora balliamo, se è la nostra festa» – che però con un ‘orsù’ ottocentesco o con un punto esclamativo o magari due, sempre molto in voga, sarebbe stata anche meglio – e subito cominciano a far capolino, dispettose, le domande… Alla festa di qualcun altro non è lecito ballare? Chi dobbiamo rassicurare di scatenarci solo alla nostra festa? E se ci viene voglia di ballare il 10 aprile o il 15 febbraio o il 7 agosto? Ma questa benedetta festa, poi, chi l’ha decisa? Siamo proprio sicure di volere che sia nostra? E nostra di chi?

Per la memoria che ne ho, l’8 marzo non è una data liturgica, è richiamo di memoria storica, memoria di una strage di operaie, memoria d’ingiustizia che segue e anticipa altre ingiustizie, altre stragi. Solo a guardare le cronache quotidiane dal Medio Oriente fino al condominio accanto al nostro, assegnando una festa a ogni tragedia che hanno vissuto e vivono le donne, passeremmo la vita a ballare e i calendari non basterebbero.
Mentre turbata e confusa vado vanamente rimuginando, mi scorrono in mente articoli e filmati dall’Iran, dall’Afghanistan, dalla spiaggia di Cutro, arrivano sul telefono le immagini delle proteste in Tunisia e quelle dal Libano… D’istinto mi rispondo: “altro che ballare…” E nello stesso momento mi punto contro, con inevitabile dolente contorsione articolare, il dito autoaccusatore: “sei sempre la solita, non ti va mai bene niente, continui a spaccare i capelli e rompere le scatole con questa mania delle parole, sei proprio diventata una femminista vecchia (una vecchia femminista è un’altra cosa), non hai proprio un briciolo di ironia, che creatura grigia, non riesci proprio a capirle queste ragazze!”
Carissime, io non lo so se il mio dito autoaccusatore abbia ragione, sarebbe tutto molto più semplice se così fosse, sarebbe solo un problema mio, dunque assolutamente marginale.
Il fatto è che ho la spiacevole sensazione che da troppo tempo non facciamo che ballare, quasi a comando, come i pupazzetti a molla, obbedendo all’imperativo di adeguarsi al viver del mondo, a esser leggeri, a tenere il dolore sotto i tappeti rigorosamente disinfettati di case sempre più asettiche in assetto di privata fortezza. Da troppo tempo mi sembra di stare ballando sì, ma l’ultimo valzer sul Titanic.
Sono fermamente convinta che creatività e fantasia siano determinanti anche solo per concepire un’idea di liberazione e siano indispensabili per praticarla, dunque mi è difficile pensare che un processo creativo, un moto di liberazione, un contagio benefico di indignazione, di insubordinazione, o anche solo di dubbio, possano cominciare senza mettere in crisi l’abusatissima quanto rimossa realtà, scambiando strategie per conquistare un illusorio consenso ‘di piazza’ per gesti di rottura.
Ballare è espressione di straordinaria forza liberatrice, ma se ci è chiaro da cosa ci dobbiamo liberare, come ben sanno le donne afghane…

Va bene, basta! sei proprio un trombone! – protesta il dito autoaccusatore – pertanto chiudo questa mia letterina un po’ sconclusionata, ringraziandovi per la pazienza e l’attenzione mentre resto in fiduciosa attesa del caro e desueto cenno di riscontro.

Saluti solidali
caterina pastura