Margherita Celestino

05.02.2022

Sono sparita per un po’. Mi scusi, diario, se sono sparita. Ero in un’isola che si chiama ‘Filosofia’, la conosci?

Il volo è stato buono. Da sopra le nuvole la terra si vede tutta quanta. No, tutta intera è impossibile, a pezzettini, ma molto più nitida.

In quell’isola ho incontrato un certo Ludwig Wittgenstein e abbiamo parlato, ma soprattutto si è fatto molto silenzio. Non posso dire cosa è stato, ma da queste parti lo chiamano “colpo di fulmine”, un luogo comune in cui abitano tutte quelle persone che si sentono fulminate da altre persone, ma in senso positivo.

Unendo i puntini della sua immagine, il discorso che c’era tra noi appariva sempre più chiaro e radicato. Di che abbiamo discusso non te lo posso dire adesso. Lui era giallo, rosso e blu e di tutti i colori che ci stanno in mezzo. A volte diventava tautologicamente bianco, altre contraddittoriamente nero. Ma io ero e già questo era tanto. Lui mi doveva insegnare le differenze. Io gli ho detto la mia questione sull’identità. Lui mi ha risposto che era proprio da lì che si doveva partire e allora abbiamo camminato sull’isola.

Poi – che non è poi, ma è il senno di poi – sono tornata qui dove sono le 20.05.

Io allo specchio, tutta intera dopo il viaggio, mi rifletto alle 50.02.

Mi vedo al contrario. Queste gambe di sicuro appartengono a me. C’è qualcuno dall’altra parte, forse è lei! Alice? Sei tu? È da vent’anni e più che vorrei chiederti cosa ti ha colpito del bianconiglio che lo hai seguito così, fino in fondo? E io come ci arrivo da te? Tutto è pieno di collegamenti, ci sarà un modo! Certo, per te è facile da là dentro. Ci sei già. Il linguaggio manca di spiegazioni, significazioni e radicamenti. E come segni, anche noi siamo arbitrari. Ho fatto goal. Sento un fischio, è tardi, devo andare! Dove corri? A festeggiare? Vuoi una tazza di tè? Ci ho messo il brandy! Poco però… oh, fai tutto da sola, perché ti parli e ti rispondi e ti riparli sopra così tanto che poi non ti ascolti più: scrivere è come suonare; amica mia, hai bisogno di pause, respiri diaframmatici che fanno collassare la punta dello sterno fino al centro del cuore. Provaci. Lo sterno non si abbassa, indietreggia e si calma di fronte al fruscio dell’aria che entra e che esce.

Hai bisogno di tirarti su dalla collottola, come una lupa, che mette al riparo i suoi piccoli. Evviva il lupo!
Salvati baby, è come il rock! Le dita vanno avanti sulla tastiera senza sognarsi di pensare se sia giusto o sbagliato, è quello che è ed è. È non-senso, ma non privo di senso, capisci, Alice? Ti sto inseguendo! Dove vai? Non lo sai? Ma sicuro starai andando da qualche parte, ci stai andando, te lo assicuro!

Ho trovato questa agenda, Margherita… ah, allora puoi anche rivolgerti tu a me. E mi vedi? Non proprio, vedo bene le tue gambe, le tue gambe che sono tue. Ed è già qualcosa che è. E questa agenda? È piena di cose scritte sopra, tipo: “due bennaio 2102, oggi non ho parlato all’elefante”. Quale elefante, Alice? Non lo so, ma è tuo, c’è scritto: M.C. da quando è morta a quando è nata: l’agenda di tutte le cose che non ha fatto. E poi? “c’è scritto gatto mi ha parlato in latino e io ho capito tutto. Cinque arrosto ma non c’è scritto l’anno” e ancora “sei giglio 1002, mi sono goduta molto il concerto dei marmellata di perle”.

I Pearl Jam, Alice! Ero a un concerto il sei luglio duemiladieci e mi sono messa a piangere perché non potevo essere felice di un momento felice. Doveva essere tutto bello ed era tutto vuoto, c’erano solo contorni quel giorno, ma dentro non c’era nulla. Anzi, non ho pianto, a te lo posso dire: è successo che le lacrime che avrei potuto avere sulle guance, si sono ritirate dentro l’occhio. Risucchiate indietro. Mi capisci, Alice? Vorrei offrirti una danza corretta e due biscotti. Ci metti lo zucchero o il miele? Liscia, grazie. Dove vai adesso? C’è Baruch, l’occhialaio, magari ripara pure gli specchi. Corri! Arrivo, ma non riesco a passare!

C’è qualcuno che mi chiama dall’altra parte e continua a ripetermi che non si capisce niente di quello che dico, ma io non mi preoccupo, mi occupo e non mi cupo-transitivo.

Mi dispiace, diario, non capisci nemmeno tu. Ma tu sei spazio bianco quindi sei paziente patentato. Dici sempre di sì. No? Alice, dove sei? Ali… Ludwig! Anche tu qui? Sto aspettando il passaporto per andare in Russia, vado a fare l’operaio. Sei in fila? Vengo dopo di lei e lei viene dopo il coniglio e il coniglio viene dopo che si è chiamato così per un certo verso e prima per un altro verso, ma questo io non posso dirlo. Prendo il mio numero anch’io e mi metto a turno per approfondire la faccenda. Si è incollato tutto il senso, le parole si addossano e fanno la calca di fronte all’ufficio collocamenti. Non posso andare oltre per stasera, ma è tutto molto chiaro, diario. Lei però non ne sembra persuaso.

Signor Baruch? Mi può fare un preventivo per riparare lo specchio?
Ma io faccio gli occhiali.
Signor Baruch, può aiutarmi a vederci meglio?
Certamente, ma prima lei deve uscire da lì!