Margherita Celestino

09.03.2023

Caro Diario dell’Apocalisse, sono colei che questo mese niente scrisse, molto visse e poco disse.

A poco a poco lesse James Hillman, prima di imbattersi in Kant… un cambiamento alquanto sciockant.

Abbandono subito la terza persona, il passato remoto – luogo temporale lontano e di una vita già tutta attraversata, già tutta nostalgia che non lascia spazio all’esperienza – e questo mantello di ironia che mi sa di nascondimento.

Sono appena nata per la millesima prima volta.

Ho vissuto a lungo ibernata in bilico tra fight e flight (due termini di psicologhese che ormai tutti parliamo come se fosse la madrelingua del mondo) e disciolta ogni tanto da slogan motivazionali e infusi di coscienze altrui, coscienze alla curcuma che hanno imparato a conoscere la propria velocità e a vivere secondo lei così da nutrire quelle degli altri. Ma non bastano 5 minuti di parole efficaci al giorno per sentirsi in movimento. Una domanda lanciata nel vuoto: in quest’era in cui ognuno è coach di qualcun altro, quanti lo sono di sé stessi?

Per disgelarmi meglio stavolta l’ho fatta grossa. Ho preso un biglietto per un altro paese. Ho chiesto all’Europa di abbracciarmi col suo senso di solennità. Ho iniziato a servire cappuccini con la schiuma molto densa, ad attraversare nuove strade, a calpestare nuove sale di danza – ricordandomi di poggiare i talloni più spesso e non rimanere sulle punte come facevo prima, per non fare rumore e non dare fastidio – e riprendere a procedere spedita verso la mia imperfezione, cioè smettere di desiderare il suo contrario.

Prendo di nuovo spazio.

Oggi è domenica e con una certa felicità mi metto in cammino verso una tazza di tè; parlo una lingua che si attorciglia sotto il palato, alternando un inglese discreto a un francese inesistente, ma sognato come sexy, convincente e necessario; osservo le cose fuori. Mi soffermo sui rami degli alberi nudi d’inverno e mi chiedo se sentano freddo anche loro così, senza le foglie. Vedo corvi appollaiati sui tetti delle case, sempre pronti a fuggire via appena decidi di fargli una fotografia. Mi accorgo di nuovo del sangue che percorre le minuscole tubature blu che ci ritroviamo sottopelle, un labirinto in cui nulla si può realmente perdere, ma soltanto trasformare.

Sono di nuovo al sicuro. Il mio corpo è tornato ad essere casa.

Adesso posso dire di essere più simile ad una tartaruga a vela – la prima volta che ho sentito parlare delle tartarughe a vela è stato grazie al mio maestro di Tai Chi. Si tratta di una decorazione ricorrente a Palazzo Vecchio (Firenze) che ritrae una tartaruga con sopra una vela, accompagnata dalla descrizione “festina lente”, cioè “affrettati lentamente” – ed è così che vado avanti, lenta e tranquilla come una tartaruga e veloce e forte come una vela gonfiata dal vento.

Navigo con lentezza. Osservo il panorama. Sono una tartaruga soprattutto perché non mi sento più fuori posto; il mio posto me lo porto dietro, non ho paura degli imprevisti perché se non li hai visti che ti spaventi a fare?

Non chiedo di più di quello che c’è. Direziono la prua verso una nuova idea di reciprocità, quella col mondo. Come dice Jean-Luc Nancy che ha inventato il termine ex-peau-sition al posto di exposition (ci ha messo dentro peu che vuol dire pelle in francese), la pelle è sia confine che punto di contatto, sia fine che inizio ed è in questa permeabilità che vivere è di nuovo possibile.

Dove non voglio più stare è ferma alle costosissime dogane degli altrove che non sono mai il posto giusto.

I giorni mi accarezzano, li vivo da dentro e non scivolano più gli uni sopra gli altri.

Cos’è cambiato? Perché la “batteria” del mio cuore a volte si scarica ed esco dall’amore e poi di nuovo funziona? È sempre così, che dopo l’inverno viene ancora la primavera?

Lascio queste questioni aperte alla vita che prosegue a volte meravigliosamente indisturbata.
Non pretendo di capire tutto, anzi, ancora una volta mi ricordo che ho troppo a lungo creduto di sapere qualche cosa; di dover rispondere a domande mal poste; di raggiungere obiettivi che non poggiavano su basi concrete di desiderio e di realtà. Smetto, ancora una volta, di dare conferme a richieste che ignoravano bisogni. E ci tengo a sottolineare che non è di me che voglio parlarti, diario, io sono solo un prototipo di queste cose che attraversano tutti gli umani che per definizione sono estranei a loro stessi, perché animali da una parte e dotati di menti riflettenti dall’altra e sono sicura che sarò più in grado di sviluppare questo argomento una volta che avrò finito di studiare estetica.

Bruxelles mi ha accolta in una flora costituita da grandi palazzoni nuovi con finestre a righe color Wafer alla nocciola, profumo di pain au chocolat alternato ad un imprevedibile puzzo di piscio insopportabile e ogni tanto coperto dall’odore di patatine fritte nel grasso. A volte ho la sensazione di ingrassare soltanto perché annuso l’aria, altre perché ho reintegrato formaggi e cioccolato alla mia dieta, perché anche l’anima ha bisogno del suo nutrimento. In altre zone casette liberty e comignoli e finestre senza tende che regalano la sensazione chiara di vivere nel mondo e non soltanto a casa propria. Niente tapparelle abbassate. Intravedo le cucine e i tulipani poggiati sui tavoli. Indovino le età dei miei dirimpettai.

La fauna è variopinta. Al terzo piano un quarantenne che lavora troppo e ogni 15 minuti fa una pausa per fumare una sigaretta. Vedo solo la sua mano uscire dalla finestra. Sopra di me una coppia di musicisti che fanno concerti per bambini. Al bar la signora sorda entra sbattendo la porta e urlando “AN TE NOIR!” e poi lascia sul tavolo venti centesimi di mancia; sulla metro ogni tanto tra gli smartphone c’è qualcuno che invece legge un libro e allora cerco di girare la testa quanto basta per riuscire a guardare la copertina; i bambini a volte mi sorridono e io ricambio i loro sguardi, grata di riuscire ancora, per un pelo, ad entrare nel loro mondo, ma anche di saperne uscire e rivolgermi subito dopo a un anziano signore che vuole lo zucchero nel cappuccino, anche lui sorride allo stesso modo.

Il cielo qui certe mattine è un tetto grigio che ci lascia senza ombre. Com’è stare senza l’ombra? Non è forse un passo chiaro verso la follia? Forse le ombre è meglio tenersele accanto, per ricordarsi dei propri limiti che sono anche trampolini per la libertà stando all’intramontabile detto per cui “ogni impedimento è giovamento”.

È con questa nuova idea che mi sento di nuovo ospite ospitante, amata e amante, desiderata e desiderante, ad alimentare io stessa la fiamma che mi alimenta. Con meno parole, la chiamerei: un ritorno radicale alla responsabilità, cioè la capacità di rispondere (stare di fronte, stare a contatto, dare risposte ai desideri, alle esigenze, contrapporsi, prendere posizione…).

Mi accorgo anche che questo stesso scrivere è un nastro che si avvolge e che si svolge sempre avanti e indietro. Sempre diverso e sempre uguale. È un aprire gli occhi chiusi, sporcare e pulire i vetri della percezione fino a romperli. Formarsi nell’idea di non creare forme ma lasciarsi attraversare, pronti ad accogliere il non sapere (che non vuol dire alimentare dubbi, ma generare domande) danzare; contare le ore del tempo cronologico a confronto con quello vissuto. Fare i biscotti, stare saldi nel pensiero che si rigenera costante grazie a radici sensibili in un terreno che cambia sempre, prendere la vitamina D, salutare la giornata ripercorrendola a ritroso e andare a letto presto.