(…) Smembrati, sbalestrati, in mostra come merce, ridotti a funzione, ridotti alla parte che esegue il lavoro, sono pertanto gli umani. Nessuno ha più alcuna intenzione di prendersi cura dell’intero. Lasciare libero ciò che non serve, in realtà vuol dire abbandonarlo alla deriva, obliarlo, negarlo. Tutto ciò che un tempo componeva le qualità dell’umano, che gli dava consistenza, durata e specificità è considerato fastidio e intoppo alla produttività. Un rifiuto ingombrante. (…)

Gianfranco Perriera

Ne La catacomba molussica, intrigante combinazione di narrativa e saggio filosofico, Gunther Anders descrive – in un libro composto nel 1932, scampato alla censura nazista e pubblicato nel 1992, anno di morte del filosofo – la condizione di disfatta di ogni illuminata e generosa aspirazione umana. In una società distopica e totalitaria, i pochi che si oppongono sono condannati all’internamento nel sottosuolo, dove, comunque spiati e controllati, cercano di tramandare la verità e di resistere – narrando quel che avviene di sopra – alla deriva inumana dei tempi. In uno dei racconti che i due protagonisti si scambiano all’interno dell’opera, Anders ci mostra come gli uomini abbiano smarrito ogni interezza: essi sono ridotti a “pezzi”, “parti”, divenuti utili soltanto in base alla funzione che possono svolgere e ritenuti assai meno affidabili e redditizi delle cose. Il signor Bamba, imprenditore di successo, si reca dal signor Glue per acquistare schiavi da utilizzare in fabbrica. Lì protesta per i prezzi troppo alti: lui, in effetti, non ha bisogno di gente intera. “Io ho bisogno di un dito, di un piede.” – afferma lucidissimo – “Per quelli sono disposto a pagare. Il resto lo lascio libero”. “Ciò che non dà profitto è immorale”, sentenzia poche righe dopo, rivelando senza infingimenti la legge che regge la realtà.
Smembrati, sbalestrati, in mostra come merce, ridotti a funzione, ridotti alla parte che esegue il lavoro, sono pertanto gli umani. Nessuno ha più alcuna intenzione di prendersi cura dell’intero. Lasciare libero ciò che non serve, in realtà vuol dire abbandonarlo alla deriva, obliarlo, negarlo. Tutto ciò che un tempo componeva le qualità dell’umano, che gli dava consistenza, durata e specificità è considerato fastidio e intoppo alla produttività. Un rifiuto ingombrante. Al limite il problema sarebbe come smaltirlo. Questa la forma di società che Anders, ancor prima dell’affermazione del nazismo, intravedeva.
Homo oeconomicus e homo consumens: questo, in effetti, pare il destino che, dopo le speranze illuministe, si sia invece materializzato per la specie nell’epoca del trionfo del neoliberismo: epoca senza censure ai desideri e dalle infinite offerte, purché, naturalmente, si abbiano denari a sufficienza per permetterseli. Alla gran parte dei mortali – frammentati e isolati nella folla, indotti all’egoismo e alla vergogna se impossibilitati a consumare, liberati al risentimento e all’odio dell’altro, consegnati alla superfluità in troppi settori dal momento che la macchina produce di più e dà meno fastidi – il solo scampare all’uragano dei tempi è una fatica degna di quelle d’Ercole. Come se non bastasse in questi due ultimi anni un’altra spietata sciagura ha investito gli umani: un virus subdolo, che toglie letteralmente il respiro. Su molti passa senza arrecare alcun danno, ma troppi conduce alla morte. Colpisce, però, specialmente i più fragili. L’epidemia non stermina soltanto nelle zone povere del mondo. Colpisce e incalza anche là, nel ricco e democratico occidente, dove le vetrine son piene e la speranza di vita è assai più lunga. Benché, a ben pensarci, a leggere i libri degli anni ’60 e ’70 la vita umana nel duemila avrebbe dovuto toccare durate ben più consistenti, i centoventi anni senza acciacchi almeno. Che questa previsione rivelatasi sballata sia il segno che qualcosa è andato storto?
Tecnologia e scienza, in particolare medica – fiore all’occhiello e voci imperanti della civiltà occidentale – in un primo tempo si sono mostrate prese alla sprovvista. Hanno balbettato e tentennato, mentre gli umani soffrivano e morivano. Ma in breve tempo, tecnologia e scienza medica, hanno dato prova della loro efficienza e mostrato i muscoli: in un anno, forse anche meno se cassiamo il periodo in cui sono state colte di sorpresa, hanno sfornato i vaccini. Hanno messo una pezza alla mortalità, si sono riempite di gloria e anche di quattrini (le due cose, nell’epoca, si considerano raramente disgiunte). Soprattutto hanno permesso all’economia di mercato di riprendere il suo corso. Certo qualcuno è morto, dopo che gli era stato inoculato il vaccino; certo numerose controindicazioni sono state riscontrate; certo i colossi farmaceutici confessano di non essere in grado di assicurare alcunché riguardo alla durata della protezione e soprattutto riguardo agli effetti collaterali che potrebbero derivarne perché non c’è stato il tempo per verificarli; certo virologi e esperti hanno dato indicazioni spesso contraddittorie e si sono rimangiato quanto detto anche due giorni prima; certo alcune cure si sono interdette, altre messe da parte perché troppo care; certo vaccinandosi non si smette di essere contagiosi; certo si è dato luogo alla campagna senza clausure pur sapendo che il virus è abile a modificarsi; certo la situazione è in costante evoluzione e i risultati in Israele, per esempio, che era stato un fulmine nel somministrarli, pare di nuovo complicata. Ma tutto ciò ha ben poca importanza. E soprattutto a che pro ricordarlo? Non dovrebbero darsi discussioni: tutti devono vaccinarsi. Dovrebbe essere un obbligo. Soprattutto tutti dovrebbero sentirlo come un obbligo. La vaccinazione è perciò un dovere morale. Intanto questa etica di stampo quasi kantiano si trasforma in scontro tra tifoserie (bel modo di essere un’etica!). In un mondo svagato e sciamannato, dove argomentazione e cultura sono considerate inutili o dannose perdite di tempo, dove il dissennato relativismo trova un limite solo nelle ragioni del più forte e più popolare, purtroppo pare non restare che lo scontro tra fazioni. Che, in questo caso, supremo asso nella manica, vengono ridotte a due: pro-vax e no-vax. I buoni e generosi stanno naturalmente dalla parte dei primi, tutti i cattivi e gli egoisti finiscono tra i secondi. Tra i due estremi, ovviamente, non si dà nulla: non c’è spazio per chi volesse esporre critiche, porre dubbi, avanzare interrogativi. Eppure non sono queste ultime tutte pratiche della scienza? Non aveva detto Popper che ciò che differenzia la scienza da altre attività è il fatto che essa è soggetta al principio della falsificazione? Dovrebbe trasformarsi invece in dogma o peggio in rassicurazione promo pubblicitaria, con sfoggio di cartelloni cubitali da cui sorridenti medici (o attori impersonanti dei medici?) invitano a fidarsi? Non è stata proprio la scienza nel secolo scorso a gettare nello sconforto ogni pretesa di oggettività assoluta con il principio di indeterminazione e ricordandoci che la posizione dell’osservatore influenza l’osservato?
Intanto a chi pone interrogativi si dà dell’egoista e dell’idiota. Che si taccia e si ottemperi al dovere morale. Eppure sono proprio queste parole, dovere morale, che impediscono che la questione si chiuda nel silenzio. Dovere morale, si ripete, in particolare dagli scranni più alti? Eppure quest’epoca non ha mai dato simile prova di slancio assiologico. Non lo ha fatto là dove si tratta di ridurre la sperequazione tra ricchi e poveri; né quando si tratta di eliminare il lavoro schiavistico nel settore agricolo o quando si sono stretti gli accordi con la Libia pur sapendo quali torture debbano subire “i respinti o trattenuti” che siano; né quando occorreva proteggere i diritti dei lavoratori e impedire che fossero licenziati; né quando si tratta di approvare una legge che tuteli le differenze di genere; né quando si tratta di agire per riequilibrare le disparità nell’andamento scolastico dovute a ragioni di censo; né di fronte al dissesto climatico-geologico; né quando si sono ridotti i posti letto in ospedale o si sono depotenziati i medici di famiglia. L’epoca pretende di richiamare al dovere morale soltanto quando si tratta di salvaguardare la nuda vita e soprattutto di evitare qualsiasi intoppo alla circolazione delle merci. Che si affoghi pure nel Mediterraneo, che si venga pure licenziati e che le famiglie siano gettate sul lastrico, purché non si nuoccia al mercato. Come aveva già detto Anders: “ciò che non dà profitto è immorale”.
Più di due millenni e mezzo or sono i Greci diedero vita a filosofia e tragedia. Il loro pensare non si arenava alla ragione come puro far di conto per consentire la riproduzione. Il pensare – rendendosi più complesso e per questo più asintotico – si inerpicava in zone sempre più astratte: cos’è l’uomo? Cosa sono il giusto, il bene e il bello? Cos’è la verità? Come governare in modo equo?
In tale vertigine del pensare, chiamato ad ogni modo ad un limite metodologico – quel limite che impedisse all’argomentare di farsi balordo, incongruo o semplicemente prepotente – ma non contenutistico, riconobbero che ci sono faccende in cui la decisione – il taglio netto che fa propendere per l’una o l’altra opzione – non è roba da fanciulli obbedienti, costa ferite, incertezze, dubbi. In tale riconoscere la tragedia fu particolarmente acuta. Nelle sue trame, tante volte, non si squadernava la semplice scelta fra il bene da una parte e il male dall’altra. A volte si trattava persino di scegliere fra due opzioni in linea teorica entrambe plausibili, rese, però, colpevoli dal loro assolutismo. L’Antigone di Sofocle, in tal senso, resta un esempio luminoso: una donna rifiuta di obbedire ai comandi imposti dal nuovo capo della città in una situazione sostanzialmente di emergenza e subito dopo una guerra che aveva fatto numerosi morti e distruzioni. Antigone si oppone in nome di uno solo, per di più un “già morto”, considerato il nemico della città. Una città stravolta e che persino la peste aveva conosciuto. A quei tempi – va ancora precisato – la nozione di individuo non era così piena come lo fu dall’epoca moderna in occidente e – come dimostra Edipo – la colpa personale, persino involontaria, poteva avere effetti virali su tutta la comunità. Ad ogni modo Antigone si ribella ad un decreto e la storia dimostra che, in larga parte, a lei vanno le umane simpatie. Eppure non aveva troppo torto Hegel a sostenere che nello scontro tra Antigone e Creonte si mostrasse lo scontro tra una coscienza etica più vicina ai valori familiari e una coscienza etica più vicina ai valori statali/civici. Si potrebbe definire la decisione di Creonte più moderna e sicuramente più razionale, qualora, come avviene di questi tempi, al termine dessimo il senso di più utile e meno dispendiosa: individua e offre alla comunità il negativo, lo esecra, si fa monito chiaro, non lascia spazio alla confusione degli affetti. Antigone, inoltre, non si nasconde dietro propositi dichiaratamente universali. Afferma apertamente che se a morire fosse stato il marito o un figlio non sarebbe stata così ostinata. Se non molla è perché Polinice è suo fratello, e al contrario di un marito o di un figlio quando si è ancora fertili, un fratello, morti i genitori, non si può sostituire. Non dell’amore del prossimo Antigone si fa paladina, ma del diritto della consanguineità. Quanto di più atavico, insomma. Qualcosa, a dire il vero, che, almeno per gli spiriti illuminati, suona un po’ incongruo. Eppure, fatta salve le differenze assiologiche tra le epoche, non è anche possibile che Sofocle voglia suggerirci che ciò che si oppone al corso dei tempi possa, a volte, assumere le fattezze dell’arcaico? Non è possibile che Antigone, anche a costo di apparire insensibile, voglia metterci di fronte, in modo inappuntabile, all’insostituibilità di ogni individuo? Di certo entrambi i protagonisti della tragedia scontano la cecità di voler imporre la loro coscienza etica come assoluta. Entrambi sono soffocati dalla loro volontà impositiva: l’una condannata a morire in una caverna, l’altro, per interposta persona, in quanto il figlio Emone, di Antigone promesso sposo, si impicca. Entrambi tolgono respiro al futuro. Quisquilie, direbbe la logica del mercato, abituata a ragionare per quantità e non per qualità. A meno che ovviamente non pensasse di poter lucrare sul triplicarsi dei funerali. Inezie da cavillatori morali, che mettono ostacoli alla dirompente potenza della tecnica e alla vorticosa mobilità delle merci e del denaro, sussurrerebbe l’economia neoliberista, che da lungo tempo, citando le parole di Baumann, impiega “una duplice strategia. Primo, mercificare quanti più aspetti è possibile dell’economia morale indipendente dal mercato e riforgiarli come elementi di consumo. Secondo, qualunque cosa nell’economia morale della communitas resista a tale mercificazione viene considerata irrilevante per la prosperità della società dei consumatori” (Z. Baumann, Amore liquido, 2006, p. 104).
È in nome della pietas che abbiamo il dovere di porre critiche e dubbi e interrogativi. In nome di quella pietas – non certo dimostrata da chi aizza le folle in cambio di consenso o da chi sbercia irragionevolmente “libertà” nelle piazze – di quella pietà che dovremmo invocare su di noi ogni qual volta una vita viene recisa a causa del vaccino, ogni volta che a qualcuno, come ai ragazzi sino a 25 anni, che al momento, numeri alla mano, rischiano ben poco ma a cui non possiamo garantire immunità da effetti collaterali, sia imposto di vaccinarsi, ogni volta che nei dispositivi legislativi dovessero rivelarsi distorsioni ed incongruenze (perché, per esempio, obbligo di green pass nei ristoranti, all’interno, e nei teatri, anche all’aperto, e non nelle fabbriche e nei mezzi pubblici? Forse che il virus aiuta il neoliberismo a dismettere la maschera comunicandoci che per tanti è finita l’epoca dei divertimenti ed è giunta quella di sgobbare senza troppe pretese?)
Il dubbio è il sale della scienza. È ciò che priva l’episteme – “ciò che si tiene da sé e che sostiene tutto il resto” – di ogni arroganza e che trasforma il suo traballare in slancio per una nuova più affidabile ricerca. E se dovere morale deve essere che lo sia senza sperequazioni ed infingimenti. A Creonte non fu concessa la strategia dei nostri tempi, fingersi cioè libertari e costringere, pena l’esclusione dal consorzio civile, all’obbedienza. Creonte pagò il fio delle sue decisioni. Intanto si riscriva il foglio del consenso. Non più “do il mio consenso essendo informato del fatto che Pfizer (o chi per lui) non conosca né durata protettiva del vaccino né effetti collaterali che potrebbero derivarne”, ma “mi sottometto all’obbligo malgrado Pfizer (o chi per lui) non conosca né durata protettiva del vaccino né effetti collaterali che potrebbero derivarne”. Non soltanto cambia completamente il senso della frase, modificando verbo e locuzione/congiunzione concessiva. Ma, soprattutto, si fa una qualche opera di giustizia: si impedisce, per esempio, che chi sia obbligato sia anche subornato. E ancora, se di obbligo morale si parla, che colossi farmaceutici e legislatori che l’impongono siano chiamati a risponderne, penalmente e pecuniariamente. Nessuno, con un briciolo di cervello, può essere “contro la scienza”. Se ne possono deprecare però effetti, usi distorti, commistioni sospette con i padroni delle ferriere. Del resto fior di scienziati hanno prodotto armi di distruzione di massa o hanno negato a lungo correlazioni tra il fumo e danni alla salute. Se l’obbligo morale si desse come reciproco, non soltanto eviteremmo gli assolutismi (il pigiare sull’elemento emergenziale, sia detto chiaro, è spesso ragione per imporre dispositivi poco libertari) ma soprattutto ne ricaveremmo la lieta notizia che tutti ci stiamo impegnando per un miglioramento etico, che non si sta facendo semplicemente il gioco del mercato, che gli umani non sono considerati “pezzi” e che nessuno potrà mai supporre che anche un solo morto sia un normale, anzi inessenziale, incidente sulla strada del progresso della salute.
Se la scienza lo realizzasse, di primo acchito, credo mi lascerei inoculare il siero dell’eterna giovinezza. Ma non vorrei mai che mi obbligassero e che mi togliessero il diritto dei miei dubbi.