Deborah Pirrera

Non ho fatto in tempo a scriverne prima che il cancro le fosse letale ma ho fatto in tempo a leggere Tre ciotole prima di quella data. Forse influenzata dall’annuncio che la stessa Michela Murgia aveva fatto della sua malattia, forse attratta da un libro che parlava del dolore curiosa di sapere se ne avesse saputo scrivere in maniera lucida e insolita, la stessa che aveva mostrato nel comunicare al mondo che le rimanevano pochi mesi di vita.

Non ne sono rimasta delusa, da Tre ciotole, ma non posso dirmi entusiasta.

Storie legate da fili sottilissimi di personaggi che si trovano a vivere un momento delicato, a volte doloroso, di passaggio verso una nuova epifania. 

Ancora un libro che ci parla della vita, di ciò che bello non è, con quella dote comunicativa che ha fatto di Michela Murgia una protagonista dei nostri anni, scegliendo parole non edulcorate per dar voce al dolore e nel farlo ci legittima a fare lo stesso.

Non sono mai stata una sua ammiratrice, né mai una sua delatrice. Tra ammiratori ed odiatori mi colloco in una via di mezzo, anche se dinanzi a una persona come Michela Murgia è impossibile rimanere neutrali.

Non ho nutrito particolare interesse per tutte le cause che aveva voluto sposare avendo l’impressione, magari errata, di una donna talmente piena di vita da riuscire a metterne una parte in ogni cosa con la stessa veemenza e passione. Aveva idee, e coraggio, ma ugualmente la presunzione di chi sa troppo. Ai miei occhi questo troppo si accompagnava ad una manciata di superficialità, la stessa che ho ritrovato in Tre ciotole forse per il breve respiro della pagina, forse per scelta: come se nei suoi personaggi ci fosse una mancanza di grazia.

Michela Murgia per me nasce con Accabadora, il  primo romanzo che ho letto. Se oggi cerchi in internet Accabadora prima trovi la recensione al suo romanzo e poi il significato del termine “Donna che si occupava di arrecare la morte con i suoi venefici a persone di qualsiasi età affette da malattia”. Neanche quel libro mi piacque particolarmente.

Ho riscoperto Michela Murgia pochi mesi fa, per ironia della sorte non nel pieno della sua vita e delle sue forze ma proprio nel momento in cui le stesse stavano per finire.

Perché se una cosa mi ha lasciato non sono per me i suoi libri, non ne faccio a lei una colpa a me semmai, ma la capacità con cui ha saputo affrontare il cancro e la morte. Questa volta non l’ennesima battaglia ma l’arresa e l’accettazione di ciò che è ineluttabile come un’occasione. Come un momento di vita estrema in cui permetterci anche quello che mai immagineremmo, con dignità e gioia.

E di questo le sono grata.