Egle Palazzolo
“Sarabanda” è omaggio a Ingmar Bergman che lo firmò come sequel televisivo tanti anni dopo “scene da un matrimonio” e che può considerarsi quasi un testamento di cui si fa pesante ogni ereditarietà’. Dieci scene, quattro personaggi che si alternano due per volta e un insormontabile diniego ad ogni modalità di relazione e di contatto, ad ogni concessione di perdono, ad ogni possibilità di amare o di accettare l’altro. Piuttosto un ripararsi a denti stretti dalla vita, con avarizia e avversione verso gli altri, corazzati nello sdegno, timorosi di ogni, sia pur improbabile, cedimento. A farne una compatta, limpida versione teatrale è la regia di Roberto Andò che, pur nell’aderenza a forma e contenuto d’espressione del regista svedese, vi immette un filo di mediterraneità, quasi il bisogno di un minimo di sole nel buio della notte. Cioè, lascia che trapeli dall’accanito dialogo irriverente, sarcastico, più volte crudele di ciascuno, l’inconfessabile ansietà di sentimenti, di vincoli, di un qualsiasi briciolo di fede che si è accanitamente voluto disconoscere o rinnegare. Si coglie il senso di due mani che si stringono, di un abbraccio tentato, di un invito all’altro o all’atra a restarti vicino. I quatto personaggi in geometrica riquadratura scenica sono: Johan , ormai vecchio, volutamente isolato in una villa pressoché inaccessibile, affidato all’ottima personalizzazione di Renato Carpentieri, Marianne che fu sua moglie per sedici anni e che dopo tempo dal divorzio cede al bisogno di rivederlo, resa da Alvia Reale con altera caparbietà di parole e di espressioni che non sbarrano talvolta alla pietà, Karen sua nipote figlia del suo unico figlio e di Anne la bella moglie prematuramente scomparsa ,in un rimpianto che innegabilmente li accomuna, affidata alla intensità e alla bravura della giovane Caterina Tieghi e infine Hanrik questo figlio consumato dall’odio estremo e dissacrante verso il vecchio padre che con furore ne ricambia asperità e conseguenze e che la recitazione di Elia Shilton riesce a mostrare con varianti e sfumature davvero lodevoli, con la lama sottile di un disconoscimento. Il confronto fra i due il loro irrimediabile detestarsi è indicazione assai più grave di ogni narrata crisi di coppia. Padre e figlio nutriti da un odio cui è ultimo fine, non apporre alcun rimedio. Sarabanda che, non a caso dà il nome all’evidente affastellarsi di quanto accade ad ogni personaggio e che lega l’uno all’altro o all’altra in unica sconfitta, è canto dolente ma quasi irrinunciabile, Di antica origine moresca fu dopo alcune censure adottato, anche da compositori classici. Bergman dovette avvertirne l’affascinante assonanza. Culmina, Sarabanda con la sua ultima scena, nell’urlo finale del vecchio protagonista cui Carpentieri rivela magistralmente, la grande disperazione che da sempre lo consuma e che lo porta infine a gettare la maschera, fosse solo la vestaglia che ha indosso e farla buttar via anche alla sua compagna di un tempo! Tutte maschere nude quindi se con riso beffardo li vediamo così nella scena che si chiuse? O Karen almeno resta colei che si sarà potuta vestire? Lo mette in conto Ingmar Bergman, lo fa Roberto Andò?
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