Beatrice Agnello

Sull’omicidio premeditato di Saman Abbas – pakistana di 18 anni, residente in Italia da lungo tempo, ribelle al matrimonio che la famiglia voleva imporle e ai diktat della tradizione patriarcale del suo paese d’origine – su questo femminicidio, donne di sinistra, organizzazioni femministe e movimenti Lgbt+ avrebbero dovuto gridare indignazione e denuncia, riflettere pubblicamente, discutere con le donne provenienti da paesi dove si fa strage della libertà femminile e appoggiarne la causa con forza.

Si è invece registrato un silenzio che ha lasciato a qualche esagitata di destra come Daniela Santanché lo spazio per strepitare contro l’Islam, gli immigrati, lo Ius soli quasi senza contraddittorio davanti al pubblico televisivo, lasciato in balia della propaganda di chi grida contro il liberticidio solo quando non viene dal mezzo dell’Europa che gli piace, cioè per esempio dall’Ungheria, dalla Polonia e dall’italianissimo Pillon.

Su questo silenzio si è interrogata, anche attraverso un’onesta autocoscienza, Ritanna Armeni: “Mi sono chiesta perché, appresa la notizia, non è scattato dentro di me nulla. Come se non mi riguardasse. Come se fosse altro dalla mia vita. Come se avesse a che fare solo e soltanto con il modo di vivere di questa famiglia di immigrati. Roba loro. La risposta che ho trovato non è stata gradevole. Ed è questa. Credo abbia agito dentro di me, come dentro molte altre donne, una forma sottile di razzismo, certamente inconsapevole, ma – seppur sottile – razzismo”. La Armeni aggiunge: “Io penso che sia stato uno scandalo il silenzio sulla storia di Saman”. (Intervista comparsa su Huffington Post il 6 giugno).

Anche un post su Facebook dell’insegnante, da pochi anni in pensione, Gilda Arcuri fa un’onesta autocoscienza: “Ho lavorato per molti anni nelle scuole in cui, per fortuna, c’erano molti alunni e alunne di famiglie immigrate. (…) in ogni riunione di scuola, in ogni corso di aggiornamento e formazione, nell’Osservatorio contro la dispersione scolastica, in ogni luogo in cui ho potuto ho raccontato la realtà delle tante Saman. Allarmi che purtroppo cadevano nel vuoto. Una sorta di paternalismo, volendo un po’ ‘razzista’, ci ha spinti (mi ci metto anch’io) a essere indulgenti con le famiglie dei ragazzi e delle ragazze straniere e questo ha fatto ristagnare i problemi e ha lasciato sole col feroce controllo delle comunità di origine le meravigliose adolescenti che negli anni incontravamo. Che dolore e che peccato.”

Marwa Mahmoud, consigliera italo-egiziana del Pd a Reggio Emilia e donna impegnata per i diritti, ha detto che la sinistra ha paura di parlare di queste vicende perché teme di essere accusata di razzismo, ha informato che i matrimoni forzati sono reato per il codice penale anche in Pakistan e ha sottolineato che comunque la cittadinanza italiana avrebbe protetto Saman dall’abuso dei sui genitori.

La sporadicità, la rarefazione, delle voci che si sono sollevate nell’Italia in genere più attenta a violenza e femminicidio mi fa dire che forse si dovrebbe discutere di più a sinistra di cosa significa rispettare altre culture senza tradire l’universalità dei diritti umani e le singole persone (donne, omosessuali, intellettuali) che con le culture di origine vengono in conflitto.

E mi fa pensare due cose: la prima è che, per evitare che la difesa della libertà delle donne diventi tout court propaganda anti-islamica, dovremmo ricordare quel che avveniva nel nostro paese fino a qualche decennio fa; la seconda è che dovremmo studiare quel che sostengono le femministe islamiche in lotta per i loro diritti nel rispetto del Corano.

Per rinfrescare la nostra memoria: in Italia solo nel ’69 viene dichiarato incostituzionale l’articolo che prevede la punizione dell’adulterio della moglie ma non quello del marito; solo nel ’75 la riforma del diritto di famiglia riconoscerà la parità giuridica dei coniugi e sostituirà la patria potestà con quella di entrambi i genitori; è del ’74 il referendum sul divorzio e del ’78 la legge che consente l’aborto. La fortissima denuncia di Pietro Germi con una straordinaria Stefania Sandrelli in “Sedotta e abbandonata” è del 1964, ma bisognerà aspettare il 1981 per vedere abrogate le sostanziose attenuanti riconosciute dalla legge al delitto d’onore. Le nostre sono dunque conquiste recenti, alcune di non più di quarant’anni e alcune di nuovo minacciate. Eppure Maometto non è il nostro profeta, siamo un paese di cultura cattolica e la nostra Costituzione dal 1947 è paladina di libertà e democrazia.

Oltre a ricordare la nostra stessa storia, si dovrebbero conoscere meglio le posizioni delle femministe islamiche (per esempio le pakistane Asma Barlas e Riffat Hassan, l’iraniana Ziba Mir-Husseini, la marocchina Asma Lamrabet). Tutte queste studiose – coltissime, femministe e islamiche ­– combattono da anni con dovizia di argomentazioni per diffondere una lettura del Corano non negatrice della libertà femminile o, comunque, di sicuro non più di quanto lo siano le altre religioni monoteiste; combattono per dimostrare che sono gli stati autoritari e le gerarchie religiose a diffondere una lettura strumentale del dettato islamico funzionale al mantenimento del loro potere facendo leva sulla parte più arretrata della popolazione dei loro paesi, che rispetta la tradizione più che una religione, e la rispetta anche per alcune convenienze pratiche: il matrimonio con i cugini, come quello che la famiglia voleva imporre a Saman, serve soprattutto a mantenere unito il patrimonio familiare. Come non ricordare che nella cattolicissima Sicilia a questo scopo era d’uso nelle famiglie aristocratiche monacare qualche figlia?

Questo ragionamento non significa che più o meno in tutti i paesi islamici non vi siano gravi problemi per le donne – e, in ogni caso, lo stretto legame fra religione e politica statale che vige in alcuni di loro rende molto difficile la pratica della libertà: la religione guarda all’assoluto, uno stato dall’assoluto deve tenersi lontano, deve garantire il dissenso e il dubbio – significa però che fra l’arretratezza delle tradizioni e la cultura islamica vi sono parecchi distinguo da fare e che per dare forza alle donne che hanno a cuore la loro libertà in quei paesi non bisogna per forza chiedere loro un’abiura. Come Marwa Mahmud sul suo sito, è sacrosanto affermare “Non voglio rifiutare le mie origini, né rimanervi totalmente ancorata”.

Chissà che il confronto e il dialogo con le donne di cultura islamica che lottano contro l’oscurantismo non servano anche a noi donne che viviamo in paesi più liberi. Di certo servirebbe a chi di noi confessa che non le è scattato dentro nulla alla notizia dell’omicidio di Saman, come se la cosa non la riguardasse. Potremmo ritrovare quello scatto, quella dolorosa indignazione che magari per ora ci suscita di più il catcalling nelle nostre strade. Potremmo recuperare il senso delle proporzioni, provare tutto l’orrore che suscitano lo stupro e l’assassinio quale che sia la cultura d’origine della vittima e magari, a volte, sorridere di superiorità a qualche frase velleitaria tanto quanto volgare che un ragazzotto complessato ci rivolge per strada.