Marco Causi

Nascoste sotto il tappeto della discussione pubblica sul reddito di cittadinanza – e al di là degli aspetti tecnici e valutativi circa l’efficacia e le debolezze del regime introdotto nel 2019 – ci sono questioni politiche di grande spessore, emerse in Italia negli ultimi anni ma ben presenti nella storia di tutti i sistemi di capitalismo di mercato fin dagli albori della rivoluzione industriale. Qui provo a ragionare su questi aspetti storici e politici e a utilizzarli come chiave di lettura del caso italiano.

La grande trasformazione
Lo studioso che ancora oggi è il riferimento essenziale per l’analisi della grande trasformazione capitalistica, Karl Polanyi, ritiene che la sostituzione in Inghilterra della Speenhamland Law con la Poor Law Reform, avvenuta nel 1834, segnò il definitivo superamento di forme di assistenza ai poveri che potessero entrare in contrasto con la formazione di un moderno mercato del lavoro, capace di fornire un’abbondante offerta di manodopera disponibile a muoversi verso le città e il nascente settore industriale accettando condizioni salariali modeste.
È ciò che Marx chiama esercito industriale di riserva, il quale genera una persistente e robusta relazione negativa fra ampiezza della disoccupazione e forza contrattuale dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali in materia di livelli e dinamica dei salari. Negli anni ’60 del passato secolo alcuni economisti statunitensi chiamarono questa relazione curva di Phillips: più alta la disoccupazione più debole la crescita delle retribuzioni, e viceversa.
Gli effetti della grande trasformazione sulla cultura politica furono profondi. I poveri vennero distinti fra deserving poors (inadatti al lavoro, come gli anziani e i disabili) e undeserving poors (persone abili al lavoro ma disoccupate) e il sostegno caritatevole-paternalistico dello Stato fu riservato ai primi. Su chi potrebbe lavorare ma non lo fa si costruì uno stigma negativo: la colpa della disoccupazione fu caricata sulle spalle delle persone senza lavoro (indolenti, fannulloni, con pretese retributive troppo alte, ecc.). Soltanto a partire dagli anni ’30, e soprattutto dagli anni ’60, del passato secolo venne accettato il concetto di disoccupazione involontaria proposto da John Maynard Keynes e si diffusero i regimi di sussidio alle persone disoccupate (e soprattutto a quelle che il lavoro lo avevano perduto). Ancora oggi, a ben pensarci, il giudizio morale sulla condizione sociale della disoccupazione – responsabilità del sistema o responsabilità delle persone? – è uno degli elementi più forti a marcare le distanze fra le culture identitarie delle sinistre e quelle delle destre in ogni parte del mondo.
La vicenda storica (e ideologica) fa così emergere la differenza fra regimi di sussidio finalizzati al contrasto della povertà e regimi rivolti al sostegno dei disoccupati, in questo secondo caso anche su basi assicurative (come la CIG in Italia). Una differenza che pesa ab origine sul reddito di cittadinanza, che oscilla fra i due sistemi.

Piena occupazione vs basic income
La nuova visione influenzò il movimento operaio e le formazioni politiche di quella che per semplicità possiamo chiamare la sinistra storica, che non hanno mai visto di buon occhio le misure universalistiche di sostegno monetario di ultima istanza alla povertà (l’assistenzialismo assume una connotazione negativa), forse anche perché spesso originate da motivazioni culturali segnate da radici religiose e morali piuttosto che dal conflitto di classe.
Movimento operaio e sinistra storica non vogliono assistenza, vogliono lavoro: è il lavoro che dà dignità alle persone. L’obiettivo diventa la piena occupazione, raggiungibile con le politiche economiche espansive di stampo keynesiano; in più, un mercato del lavoro vicino alla piena occupazione rafforza il potere contrattuale di lavoratori e sindacato. È quanto avviene lungo gli anni ’60 del XX secolo negli Stati Uniti e in Europa, grazie alla stabilità finanziaria garantita dal sistema di Bretton Woods e all’esplosione dei consumi di massa di prodotti standardizzati: si creano le condizioni per forti aumenti salariali e, in concomitanza con il successivo aumento del prezzo del petrolio e con la fine (nel 1971) degli accordi di Bretton Woods, per l’esplosione dell’inflazione a due cifre che accompagna i quindici anni successivi.
È la piena occupazione, non il basic income (reddito minimo garantito) la caratteristica del compromesso socialdemocratico. Le rivendicazioni – e le conquiste – non si limitano ai salari ma coinvolgono il welfare: la sanità, l’istruzione, la casa, la previdenza sociale, il trasporto pubblico. Si ritiene che il sussidio monetario non possa sostituire una provvista sufficiente di beni pubblici, questa sì di tipo universalistico. Si chiedono diritti, non paternalismo.

Italia: segmentazione e disparità
L’Italia è parte di questo percorso storico, ma – come spesso avviene – presenta alcune peculiarità. Ne ricordo due: la segmentazione del mercato del lavoro e il dualismo nord-sud.
Il regime di protezione dal rischio di disoccupazione (CIG) copre soltanto la parte più forte del mercato del lavoro. Ha una caratteristica importante, perché l’accesso alla garanzia (totale o parziale) del reddito avviene senza passare dalla condizione di occupazione a quella di disoccupazione, diversamente da quanto accade nei regimi più universalistici di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania: il lavoratore o la lavoratrice non vengono licenziati e inviati all’apposito ufficio pubblico per ottenere il beneficio, ma restano dipendenti dell’azienda. Si tratta di un elemento potentissimo sia sul piano psicologico (individuale ma in questo caso anche sociale) che su quello economico (le imprese non perdono i lavoratori addestrati, che vengono rimessi in produzione non appena il ciclo negativo è superato e ciò riduce i costi di reclutamento e formazione).
Il mercato del lavoro si frammenta fra lavoratori garantiti e non garantiti. Il passaggio a un regime universalistico farebbe perdere qualcosa ai garantiti, che sono anche i più dotati di potere contrattuale. Eliminare la CIG è impossibile, ergo l’universalismo diventa un obiettivo poco realistico. Peraltro, analoghe distanze fra garantiti e non garantiti sussistono su numerosi altri versanti (maternità, previdenza, ecc.).
Nel 1997 il Governo Prodi 1 produsse un importante documento, il cosiddetto Rapporto Onofri, dal nome dell’economista che aveva presieduto il gruppo di lavoro incaricato da Palazzo Chigi. Il rapporto contiene un’analisi dettagliata dei sistemi di protezione sociale in Italia, ne mette in luce la frammentazione e le disparità che generano sul mercato del lavoro, propone una serie di interventi che, in effetti, sono diventati nei venti anni successivi il faro per l’azione della sinistra e del centrosinistra.

Contrasto alla povertà
Tutti tranne uno: l’istituzione di uno strumento di ultima istanza a sostegno del reddito delle persone in condizioni di povertà. La reazione della sinistra fu pavloviana: preoccupazione al primo sentore di assistenzialismo, preferenza del sindacato per strumenti contrattuali (che ne rafforzano il ruolo) piuttosto che universali, diffidenza nei confronti di proposte vicine alla cultura e alla prassi politica dei movimenti solidaristici piuttosto che alla tradizione storica del movimento operaio. Col senno di poi è facile osservare che per questo vuoto – di analisi culturale e di proposta politica – la sinistra storica italiana ha pagato un prezzo davvero alto: a vent’anni di distanza il vuoto è stato riempito da un nuovo movimento politico che ha fatto dell’universalismo e del basic income le sue bandiere ed è riuscito a erodere in modo significativo le basi di consenso della sinistra tradizionale.
Lo stallo conseguente alla mancata (o troppo lenta) attuazione delle proposte del Rapporto Onofri non ha impedito il consolidamento in Italia degli interventi di contrasto alla povertà, seppure con dimensioni finanziarie inferiori alla media europea e con geografia a macchia di leopardo. Si tratta di competenze e funzioni in mano ai governi di prossimità, in prima linea i Comuni e poi le Regioni, che nel corso del tempo si sono relativamente rafforzati e modernizzati.
Un punto importante è che la gestione locale di queste misure consente un monitoraggio dedicato e specifico che nessuno strumento di carattere automatico e gestione centralizzata (come il reddito di cittadinanza) può ottenere. Per spezzare il circolo vizioso della povertà non basta il sostegno monetario, occorre accompagnare i beneficiari con altri interventi (condizione abitativa e sanitaria, istruzione dei figli, formazione, ecc.), esercitare un controllo rispetto ai possibili comportamenti devianti (alcolismo, droga, violenza familiare, ecc.), proteggere in questi casi i componenti più deboli delle famiglie (donne, bambini). Sono allora necessari presidi di prossimità dotati di adeguate competenze (assistenti sociali, psicologi, ecc.) che i Comuni italiani hanno a poco a poco costruito, anche se la fotografia territoriale della loro dimensione ed efficacia è – qui come in altre azioni pubbliche – molto eterogenea, con differenze fra grandi e piccole città, fra nord e sud, fra le ventuno regioni.
Sul versante delle politiche nazionali bisogna aspettare la fase 2013-2018 per registrare un cambiamento di approccio, con l’introduzione di un’assicurazione contro la disoccupazione a vantaggio di tutti (Naspi) e di un nuovo strumento contro la povertà (reddito di inclusione). Tuttavia, è restato un freno che non ha consentito al reddito di inclusione di diventare uno strumento davvero potente, un freno che ha diverse motivazioni: la tradizionale diffidenza antiassistenzialista, la carenza di risorse finanziarie e, last but not least, il prevalere di un sentimento nordista (più precisamente, dal punto di osservazione da cui ho seguito la vicenda, tosco-emiliano).
Mentre gli strumenti dedicati ai segmenti forti del mercato del lavoro, come la CIG, fanno affluire reddito prevalentemente verso le aree territoriali produttive, quindi il nord, quelli dedicati alla povertà e alla garanzia del reddito di ultima istanza generano ovviamente flussi di trasferimenti più concentrati a vantaggio del sud – anche se bisogna ricordare che il reddito di cittadinanza, dove la prevalenza dei percettori è meridionale, ha protetto alcune centinaia di migliaia di anziani soli nel nord.

Dualismo territoriale
Nulla in Italia può essere analizzato correttamente senza tenere conto del dualismo nord-sud. Nel paese coesistono territori dove la piena occupazione è una realtà stabile, e che semmai hanno bisogno di attrarre nuova popolazione, e territori dove sono altrettanto stabili tassi di disoccupazione superiori al 20 e talvolta (per alcune fasce di genere e di età) al 30 o 40 per cento.
Per il disegno dei sistemi di garanzia del reddito condizionati alla ricerca attiva di un’occupazione (come il reddito di cittadinanza) questo elemento strutturale crea un puzzle inestricabile: certo, è possibile migliorare le condizioni di occupabilità delle persone beneficiarie (formazione, riconversione di precedenti qualifiche professionali, ecc.), ma la semplice occupabilità non garantisce l’inserimento nel mercato del lavoro quando quella che manca è la domanda di lavoro.
Navighiamo dentro una colossale ipocrisia. Date le capacità e l’occupabilità delle persone, il lavoro si trova in prevalenza spostandosi verso i territori dove la domanda è vivace, ma: primo, la mobilità costa e le remunerazioni offerte non sempre coprono tali costi e, così, non sempre sono incentivanti; secondo, diversi fattori di inerzia limitano la mobilità (per esempio la proprietà della casa di abitazione, l’età e la condizione familiare, la possibile esistenza nei territori di residenza di opportunità lavorative nei segmenti del lavoro nero o informale); terzo, la retorica politica delle subculture meridionali, che stigmatizza lo spostamento territoriale (emigrazione): così, la ricerca di lavoro attiva da dimostrare sul piano burocratico per ottenere il beneficio si limita alla provincia di residenza.
Inevitabile allora che il reddito di cittadinanza oscilli fra un disegno di basic income e uno di politica attiva del lavoro mentre, sul fronte della lotta alla povertà, la sua gestione automatica e centralizzata ne limita probabilmente, in assenza o nell’insufficienza delle misure di accompagnamento sopra descritte, l’efficacia.
Va detto tuttavia che, nonostante queste incoerenze di visione e obiettivi, la maggior parte delle analisi esistenti (per esempio quelle di Banca d’Italia contenute nell’audizione al Parlamento del 5 dicembre 2022 sulla legge di bilancio: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-vari/int-var-2022/Balassone_05122022.pdf) arriva alla conclusione che la gestione dello strumento non ha mostrato distorsioni di entità e natura diverse da quelle che emergono in altri paesi quando vengono realizzate policies simili. La stessa Banca d’Italia, inoltre, segnala che il reddito di cittadinanza ha evitato a circa un milione di italiani la caduta al di sotto della soglia di povertà durante la crisi pandemica del 2020, un evento che potrebbe invece verificarsi in caso di sua soppressione, soprattutto in una fase congiunturale dominata dal vento della recessione.

Politicismo
Sappiamo bene che tutto ciò si ribalta nello scenario politico e produce espressioni e voice di tipo territoriale, ne sono chiari esempi da un lato la Lega nel nord e dall’altro il M5S nel sud, con la contemporanea faglia che ha attraversato il tradizionale popolo della sinistra e del centrosinistra e ha generato storiche fratture al suo interno. Poiché il reddito di cittadinanza è diventato una bandiera di tipo politico-elettorale, nella discussione che lo circonda prevale il politicismo piuttosto che una ponderata valutazione dei suoi punti di forza e di debolezza.
Abbiamo visto che la diffidenza nei confronti di politiche di natura assistenziale basate su sussidi monetari ha radici antiche nella cultura della sinistra storica. Questo potrebbe spiegare la lentezza e il ritardo con cui centrosinistra e PD hanno aperto a questa policy. Tuttavia, la mia impressione è che le numerose voci che da destra, dal centro, e talvolta anche da sinistra, si sono espresse in modo critico sarebbero immeritatamente nobilitate se si facesse risalire la loro valutazione a questi riferimenti “alti” di cultura politica. Le opinioni contrarie al reddito di cittadinanza sembrano piuttosto originare da un approccio politicista: visto che si tratta della bandiera di un particolare movimento politico, allora bisogna contrastarlo. Da parte sua, il M5S non è esente da condotte strumentali e anch’esse politiciste: protegge la sua creatura mantenendone una sorta di diritto di esclusiva, pensa in prevalenza a ottenere in cambio un buon rendimento elettorale e non si preoccupa troppo di costruire consenso e alleanze più ampie.
La discussione pubblica si è così concentrata sulla contrapposizione fra abolizione o mantenimento del reddito di cittadinanza. A ben vedere non è questo il punto cruciale, piuttosto quello di migliorare il governo delle politiche di contrasto alla povertà e di sostegno alle persone in condizione di disoccupazione non protette dagli strumenti disponibili per i segmenti “forti” del mercato del lavoro, mantenendo anche le dimensioni dell’impegno finanziario: l’introduzione del reddito di cittadinanza ha portato la spesa pubblica italiana di carattere assistenziale, storicamente più bassa, ai livelli medi dell’Unione Europea. Questo è senza dubbio un risultato positivo, da cui non bisogna tornare indietro.
Il Governo Meloni ha annunciato l’obiettivo di sostituire il reddito di cittadinanza con due strumenti separati, uno per le persone inabili al lavoro e uno per i disoccupati che possono rientrare sul mercato. La riforma andrà valutata nel merito, se e quando verrà effettivamente proposta. È curioso notare che una simile riforma farebbe tornare l’assetto delle politiche italiane di sostegno al reddito e di contrasto alla povertà sul tracciato aperto dai governi Letta, Renzi e Gentiloni (Naspi e reddito di inclusione), mentre oggi il PD difende il reddito di cittadinanza. Sarà interessante vedere come il PD gestirà questa incoerenza, figlia del politicismo (in questo caso, l’inseguimento ai 5S). È un esempio, io credo, e non dei meno importanti, della necessità di una profonda, radicale e coraggiosa ricostruzione di quella cultura politica legata a riformismo, innovazione, aderenza alle reali condizioni storiche e sociali, di cui il paese ha tanto bisogno e che il PD fa sempre più fatica a rappresentare.