Maria Adele Cipolla

Possiamo fronteggiare i conflitti con la sola arma delle parole? Se lo chiede retoricamente Marcello Benfante nella prefazione ad Ancora Guerre – una raccolta di racconti nati sull’onda emotiva della guerra in Ucraina da lui curata e appena edita da Istituto Poligrafico Europeo – e ce lo chiediamo in tanti: cosa possono fare delle parole disperse al vento in un contesto in cui si usano le armi?
Eppure, sono le parole e non le armi a mettere fine a ogni guerra, quando interviene il paziente lavoro dei mediatori e finalmente vengono scritti degli accordi, che sono costituiti da parole: parole fredde e retoriche, ma pur sempre parole. È vero che a questi accordi si giunge per lo sfinimento provocato dalle armi, ma è pur vero che senza le parole lo sfinimento porterebbe all’annientamento, senza contare le tante guerre che grazie ad accordi fatti di parole, non sono mai iniziate.
E se fossero le parole dei poeti e dei prosatori, in un modo o nell’altro, a ispirare le tattiche parole dei mediatori? Certo le parole volano al vento e non si sa mai dove posino, ma se belle e ben pensate, sono capaci di ispirare persino gli animi più riottosi.
Potrebbero mettere in luce l’assurdità della guerra come nel racconto di Gianfranco Perriera, in cui un Generale poeta, oltre a infondere versi ai suoi sottoposti è costretto a giustificare l’uccisione di inermi nemici.
È invece la poesia contenuta nelle parole di Alberto Stabile, inviato di guerra, a farci digerire gli orrori di un lungo reportage da Aleppo del 2017; senza l’empatia con cui descrive cose e persone, chi riuscirebbe ad andare avanti nella lettura di prepotenze e atrocità?
E quanto sono dolci e affettuose le parole di Giosuè Calaciura nel descriverci un superstite del nove maggio del ‘43, quando a Palermo si sperimentò l’atroce pratica del bombardamento a tappeto; potrebbe ritenersi fortunato per essere rimasto tutto intero, invece no, perché il disagio di essere sopravvissuto si manifesta con un tremolizzo che gli impedisce il personale godimento della vita, quel perdersi nell’accarezzare col pennello colorato le immagini sacre delle chiese.
Deliziosa e profonda la metafora scelta da Daniela Gambino per descriverci il demone degli armamenti, che si presenta a due anziani fratelli sotto forma di pistola Colt proveniente da oltreoceano. Diventano bambini in un gioco sempre più aggressivo, finché interviene la bisnonna a sequestrare l’arma e a nasconderla sarbata bonu.
Vengono invece ricacciate in gola a suon di botte le parole dell’anarchico Bresci del racconto di Gian Mauro Costa, che la guerra l’ha fatta solo contro tutti.
Poi il candore del linguaggio di un contadino siciliano, nel racconto di Santo Lombino, prima chiamato alle armi in continente, poi abbandonato a se stesso dall’armistizio dell’otto settembre. Eppure, con l’istinto di sopravvivenza di un novello Ulisse, comincerà a prendere dimestichezza con linguaggi e realtà dominati dall’assurdo, riuscendo infine a tornare a casa.
Sono solo alcuni dei 23 racconti contenuti in questo volume, dove l’identità siciliana degli autori è presente in forme più o meno esplicite. Ad esempio nelle memorie di famiglia sulla seconda guerra mondiale nostrana, col rapido passaggio dai bombardamenti a tappeto allo sbarco degli americani, con le famiglie divise fra zona di guerra e zona di pace. Ma anche nella posizione geografica, che nel 1986 fece spiaggiare dei missili nella nostra Lampedusa. Ad esempio nelle villeggiature che tante famiglie palermitane offrirono a dei bambini ucraini negli anni novanta, e l’apprensione per questi fratellastri adesso in guerra.
Alcuni sono dei racconti distopici, che in modo vivido e puntuale ci fanno toccare con mano l’improvviso irrompere di un conflitto fra le rassicuranti abitudini quotidiane, come le chiacchiere al telefono, i due passi per far la spesa, il pilates, il costante ascolto di Radiotre; a questo proposito è molto intrigante il racconto dello stesso Marcello Benfante su un mondo in cui il sole non sorge più, inquietante metafora del nostro tempo.
Insieme, questi racconti formano un interessante campione di analisi sul personificarsi della guerra nelle nostre paure, aiutandoci ad empatizzare con chi è direttamente coinvolto nelle ostilità, a tessere un’impalpabile rete di parole capaci di mediare i conflitti fuori e dentro di noi.

 

Maria Adele Cipolla è nata a Palermo nel 1957. Ha collaborato all’edizione cartacea di “Mezzocielo”. Ha pubblicato “Vivi Villa Trabia, diario piccolo di vita cittadina” (edizioni Gelka) e due romanzi: “Elda, vite di magnifici perdenti”, auto-pubblicato con la piattaforma Youcanprint, e “Le Cicatrici d’oro”, edito da Mohicani.