Margherita Celestino

10.01.2022

Ci sono giornate che cominciano finite.

Oggi fuori è tempesta e solo la forza di volontà può forzare la serratura per uscire dai pensieri e aprire la porta di casa. Il cielo non ne può più di piangere; i palermitani che incontro nel tragitto verso la stazione non ne possono più di vivere. Guardo i volti della gente dietro le mascherine e penso che è come se in realtà nessuno di noi sia realmente uscito da casa propria. Immagino per un attimo tutti in pantofole, coi pigiami sotto i cappotti. Nessuno ha più voglia di nascondere la stanchezza. Ci siamo sbottonati pure gli ultimi bottoni.

Io mi nascondo bene. Ho fatto attenzione a non uscire dalla tana se non per le provviste, qualche amico, il lavoro e adesso cerco un autobus per andare a trovare mia nonna. Non è vietato viaggiare, cambiare, osare e vivere, ma Immunitas ha vinto la partita stavolta. Di certo non è il virus a segnare i punti per lei. Sono io, mi proteggo. Da che? Forse da una città che mi risucchia in un vortice di violentissima lentezza.

Mi viene in mente questa frase: “Palermo conca d’oro divora i suoi e nutre gli stranieri”. (1)

Il Genio di Palermo ce lo ricorda sempre che essere di qua e vivere qua, è un grande atto di resistenza.

Incredibile, non è cambiato niente. Perché tornare sempre in una casa che ci respinge?

Cammino e non mi lamento. Non posso lamentarmi perché non sopporto le lamentele degli altri. Mi sto lamentando. Non c’è soluzione a questo paradosso.

Nessun autobus all’orizzonte. In realtà nessun orizzonte e basta. Decido di prendere la metro, che poi è un treno lento. Sta per partire. Corro. Faccio cenno al controllore di aspettare. Respiro corto. Da quanto tempo non andavo così veloce? Mi fiondo sul primo vagone. Il controllore è lì. Gli dico che mi si è bloccato il telefono mentre stavo pagando il biglietto online, glielo faccio vedere. Mi dice che non esiste. Mi dice, lei alla prossima fermata scende e se si rifiuta le chiedo i documenti. Mi sento una ladra. Sbagliata come questo decimo giorno di un nuovo anno incastonato in un’eterna impossibilità di movimento. Maledico la mia fiducia nell’umana cortesia.

Scendo. Prossimo treno fra 30 minuti. La giornata è cominciata finita.
Faccio il biglietto. 28 minuti. Guardo i binari del treno e mi vengono in mente le note di “New York, New York”, cantata però da Carey Mulligan nel film Shame di Steve McQueen.

Penso che se non viaggio ora, non viaggerò mai più. Ho questa sensazione, che la mia vita si stia consumando senza di me. Palermo divora i suoi e…

…Prenditi e parti!

“Start spreading the news/ I’m leaving today/ I want to be a part of it/
New York, New York/ These vagabond shoes/ They are longing to
stray/ Right through the very heart of it/ New York, New York / I want
to wake up in a city/ That never sleeps/ And find I’m king of the hill/
Top of the heap/ These small town blues/ They are melting away/ I’ll
make a brand new start of it/In old New York “ (2) .

Mentre mi vedo già in uno dei centomila nuovi inizi che avrò immaginato da ventisette anni a questa parte, una signora sulla quarantina mi chiede se questo sia il binario giusto.
Faccio cenno di sì. È anche l’unico. Si siede. Parla al telefono. Sì mamma, per me va bene la pasta in bianco con burro e parmigiano. Tu hai fatto colazione? Il secondo no, non ti preoccupare. Filippo cosa mangia? Va bene l’insalata col pomodoro e la Simmenthal.
Alle due penso… No, ancora non è arrivato il treno. Sì mammina, stai tranquilla è quello giusto. Seconda telefonata. Pasta corta, anche pastina se vuoi. Un po’ di freddo, ma ho la giacca pesante. Va bene dai, ci vediamo dopo sì. Sì…ciao mà. Terza telefonata: va bene, anche se non c’è il burro fai un’altra cosa. Sì, il tonno va bene anche se l’ho mangiato ieri.
No dai, non scendere apposta, va bene quello… mà, stai serena, non sono da sola c’è pure un’altra ragazza che aspetta. No, non la so, ma ho google maps. Dai, ciao, cià…cià.

Immagino casa sua tutta ordinata e pulita. I vetri sempre limpidi. Il salone chiuso e aperto soltanto per le occasioni importanti. Poi vedo l’affetto che viaggia dalla cucina alla tavola attraverso pranzi, cene e annessi controlli che sia sempre “tutto apposto”. Soffoco per lei, ma magari a lei sta bene. Cibo e amore sono sinonimi da queste parti. Io non ho fatto colazione. Ogni cosa mi dà la nausea. 15 minuti.

Cammino avanti e indietro. Vorrei studiare seduta sulla panchina, ma sono troppo arrabbiata. Metaforicamente: mi sento claustrofobica. Qui è tutto da oliare: i binari, le conversazioni, le articolazioni che per l’umidità iniziano a cigolare, i desideri, i pensieri; ma è anche tutto da disappannare: togliere la nebbia, liberare l’orizzonte. Mi viene in mente che quando andavo a Roma dicevo “vado in Italia” e a Berlino dicevo “vado in Europa”.
Che ci faccio qui a mescolare giorni con altri giorni? 8 minuti.

Durante la prima lezione di filosofia del linguaggio il professore ci ha fatto un esempio di un tizio che vuole partire, ma quando gli chiedono “dove vuoi andare?”, quello risponde “via di qui, ma non è da qui che vorrei partire”. L’ho citata a memoria, quindi magari è sbagliata. L’importante è capire che è impossibile non partire da qui. Non si può non partire dal punto in cui siamo, ma forse possiamo costruire i mezzi per poter partire e andare oltre, non solo oltre questa città, ma anche oltre il senso comune, che non è mica brutto. È che tende ad arrugginirsi e nel frattempo il mondo cade a pezzi e noi con lui. 0 minuti.

Salgo. Nessuno mi chiede il biglietto. Vorrei cercare un capo treno che me lo controlli adesso che è tutto a posto. Non lo faccio. È tutto alla rovescia. Mi chiedo chi controlli: i controllori; il tasso di gentilezza nella burocrazia; che rimaniamo intatti e non ci frantumiamo anche noi come documenti; che non ci fissiamo come i numeri. Ma i numeri almeno, sono naturali? Ho la sensazione che tutta la vita soffochi dentro ad un barattolo chiuso da un grande tappo burocratico, burbero e mono-espressivo che venera il nuovo e più potente Dio Algoritmo, padre del buon vecchio Dio Google.

Scendo dal treno. Un papà tiene per mano il suo bambino. Saltellano insieme. Il tragitto è tutto una serie di pozzanghere con cui giocare. Sono sollevata. Sono dietro di loro. Rubo questa sensazione di familiarità. È come se mi dicessero “di ogni cosa possiamo sempre farcene qualcosa, anche di una giornata come questa”. Non li vedo in faccia, ma li ringrazio dentro di me. Girano l’angolo e si rimette a piovere.

 

1 Panormus conca aurea suos devorat alienos nutrit (scritta appartenente alla statua del Genio di Palermo a Palazzo Pretorio).
2 “ Comincia a spargere la voce/ oggi vado via/Voglio farne parte/New York New York/
Queste scarpe da vagabondo/Desiderano perdersi/ Proprio nel suo cuore/New York New York/
Voglio svegliarmi i una città/ che non dorme mai/E scoprire che sono il re della collina/Al massimo del successo/
Queste piccole depressioni cittadine/Si stanno dissolvendo/Ne farò un nuovo inizio/Nella vecchia New York”.