Marie Luise Kaschnitz

Margherita Cottone

Ci sono autrici e autori che misteriosamente in Italia restano nel tempo pressoché sconosciuti, nonostante il loro spessore artistico, nonostante godano di fama in patria, dove sono stati insigniti di vari e importanti riconoscimenti. È il destino che è toccato a Marie Luise (von Holwitz-Bertstett) Kaschnitz (1901-1974), scrittrice tedesca vissuta tra il 1901 e il 1974, dunque in quel “secolo breve” teatro di tragici avvenimenti. Lodevole, dunque, da parte della casa editrice Del Vecchio pubblicare uno dei suoi libri più belli, Ponte Sant’Angelo (Osservazioni romane), magnificamente curato e tradotto da Giuliano Lozzi.  La sua lucida introduzione merita un’attenta lettura e induce a tante riflessioni.

Le motivazioni su questo silenzio possono essere di varia natura e investono sia il piano letterario che politico. Marie Luise Kaschnitz non è un’autrice “facile”, la natura della sua scrittura, sia per quanto riguarda i contenuti che la forma, è complessa ma non ermetica, e forse non sempre immediatamente accessibile. Ma non mi pare sia questa la vera motivazione, quanto piuttosto una sorta di ostracismo ideologico legato sia forse alle sue origini aristocratiche sia anche alla sua scelta di vivere in Germania durante il Nazismo, dove ha fatto parte di quella schiera di scrittori appartenenti alla cosiddetta “emigrazione interna”, vale dire che fecero un’opposizione silenziosa, da lei stessa riconosciuta “colpevole” perché altro non seppero fare se non continuare a scrivere: “In cosa sarebbe consistita la nostra cosiddetta emigrazione interna?”- scrive nello scritto autobiografico Luoghi. Annotazioni del 1973 – “Era forse ascoltare stazioni radio straniere, sedersi insieme e ignorare il governo, stringere occasionalmente la mano a un ebreo per strada, anche se qualcuno lo vedeva? … Non stampare di nascosto volantini in cantina, non distribuirli di notte, non appartenere a organizzazioni della resistenza… Meglio sopravvivere, meglio essere ancora lì, lavorare ancora, una volta che il terrore fosse finito. Non siamo politici, non siamo eroi, abbiamo fatto altro.”

 L’esperienza della guerra determinerà un cambiamento radicale nella sua arte. Denunciando il proprio comportamento “non eroico” durante il nazismo, Kaschnitz si interroga sul sentimento di colpa diffuso nell’animo di molti tedeschi per essere stati direttamente o indirettamente complici dei crimini commessi dalla dittatura hitleriana. Sull’argomento scrive un saggio Sulla colpa (Von der Schuld), del 1945 , in cui affronta il tema delle responsabilità legato alla propria generazione.

Delle sue opere in Italia esistono poche traduzioni e per lo più datate, dunque inaccessibili. Non esiste un’edizione italiana delle sue poesie (che uscirono numerose in Germania tra il 1947 e il 1974), se non singole traduzioni pubblicate qua e là in riviste, mentre alcune sono oggi disponibili in Internet. Una traduzione delle 11 poesie dedicate alla Sicilia, che visita nel 1951, uscirà con il titolo Autunno siciliano nel 1993 grazie a Maria Teresa Galluzzo e Fabio Oliveri. Per quanto riguarda la sua prosa, caratterizzata soprattutto da folgoranti racconti brevi che si muovono tra sogno e realtà, ma anche da romanzi (L’amore ha inizio 1933, Elissa 1937 eLa casa dell’infanzia 1956), da radiodrammi, e in seguito da scritti autobiografici, voglio ricordare in versione italiana La Prova del fuoco ed altri racconti del 1992, tradotti da Olimpia Gargano, con introduzione di Giorgio Cusatelli, in cui compaiono i suoi racconti più suggestivi, come La bambina grassa o Ombre lunghe. Taccio sulla fortuna o sfortuna critica in Italia di cui c’informa Giuliano Lozzi nella sua ricca introduzione.

Eppure è stata una scrittrice di grande talento, e soprattutto una scrittrice che ha amato molto l’Italia, dove ha vissuto dal 1927 al 1932, anni in cui incontra il futuro marito, l’archeologo Guido von Kaschnitz. Lo seguirà in Germania quando questi vince una cattedra di Archeologia, ma dopo i duri anni del Nazismo e della guerra la coppia ritornerà in Italia nel 1953 perché Guido von Kaschnitz diventa Direttore della sezione romana dell’Istituto archeologico germanico. Vi resterà fino alla morte del marito nel 1958, pur se in seguito vi ritornerà spesso, ospite di Villa Massimo o anche dell’unica figlia Iris Costanza. Sarà proprio il rapporto con il marito archeologo, con cui viaggerà a lungo visitando importanti siti archeologici in Italia e in Grecia, a suscitare in Kaschnitz l’interesse per il mondo classico, tema costante della sua prima produzione poetica – sul piano formale più tradizionale di quella che svilupperà dopo la guerra – e che troverà anche formulazione nel volume Miti Greci del 1943.

 Dopo il ‘45 le sue poesie cambiano decisamente tono, mutando di segno sia sul piano formale che contenutistico: guardano al presente, al mondo contemporaneo piuttosto che a quello classico. Attraverso un percorso doloroso che ha a che fare con la perdita e la morte, Kaschnitz prende consapevolezza dell’orrore del passato e cerca nuove forme espressive. Non più il sonetto (forma rigida che in qualche modo si contrappone al caos della storia), bensì il verso libero, sincopato, povero di metafore. Nascono le poesie romane di Ewige Stadt (1952), i Neue Gedichte (“Poesie nuove”; 1957) e quelle nate dopo la morte del marito di Dein Schweigen. Meine Stimme (“Il tuo silenzio. La mia voce”, 1962).

Alla nota formulazione adorniana sull’impossibilità di scrivere poesia dopo Auschwitz, Kaschnitz, che ha come modello poeti quali Celan e Trakl e non è immune dai nuovi problemi etici e formali che investono la letteratura, risponde insistendo sulla necessità della poesia. Rispetto alla tendenza a vivere la parola come cifra del non detto, si definisce una generazione più “chiacchierona” che, pur cercando un nuovo linguaggio in grado di dire l’infranto, comunque crede che “il polifonico linguaggio della lirica non potrà farsi silenzio per sempre” (Kaschnitz, Ein Lesebuch,1980, p. 215). E un “nuovo linguaggio” Kaschnitz lo troverà. Non a caso Ingeborg Bachmann, sua intima amica negli anni romani, in Letteratura come utopia la cita tra quei poeti che hanno rotto con la tradizione estetizzante della “bella parola”, e la inserisce in una lista di poeti come Nelly Sachs, Hans Magnus Enzesberger, Gunter Eich, per i quali le” parole non sono godibili ma dense di conoscenza, come se dovessero fare qualcosa per lenire la disperazione […] Fuori di sé e con l’elmo di fuoco, feriscono la notte”. (I. Bachmann, Letteratura come utopia, Milano 1993, p.52).

 In Ponte Sant’Angelo ci troviamo di fronte a 168 prose brevi su gli argomenti più vari: ricordi, sogni, aneddoti, libri letti, descrizioni di quadri, considerazioni sulla scrittura, etc. Roma, cui Kaschnitz dedica tral’altro anche un intero ciclo di poesie Città eterna (Ewige Stadt, 1952), fa da sfondo, quando non è protagonista, con il suo carico di classicità e di caos metropolitano, con la sue bellezze e le sue miserie. I testi che compongono il libro – squarci di vita che lei ha “visto” e vissuto – sono caratterizzati dalla “forma breve”. Si potrebbero definire anche “schizzi in prosa” o “saggi brevi”. Giuliano Lozzi enumera un po’ tutti i modi con cui sono stati definiti. Sicuramente si tratta di una forma mista che sta tra il “diario” e il “saggio”, quest’ultimo definito da Adorno (con cui peraltro la scrittrice fu amica negli anni francofortesi) “forma eretica” per eccellenza. La forma breve come il frammento, l’aforisma è infatti per sua natura antisistemica, rompe con l’idea di una organica totalità, rappresenta la necessità di scrivere in modo altro, perché chiuso in sé ma aperto verso il possibile.

Il volume, di per sé corposo, è inoltre arricchito da una nota di Paola Del Zoppo sull’autrice e il suo rapporto con l’Italia, in cui sottolinea l’importanza nel panorama internazionale di questa scrittrice che si muove tra “tradizione e sperimentazione, tra lirismo e l’impegno storico” e che “non si è mai completamente allineata né con le avanguardie né con le correnti più conservatrici” (p.442). Vi è inoltre un’interessante nota finale di Lozzi sulla traduzione del testo giustamente definita “di ritorno”, perché attraverso essa si restituisce agli italiani un’immagine dell’Italia che Kaschnitz aveva voluto trasmettere/tradurre ai tedeschi, come scrive chiaramente nell’ultimo brano del testo che porta il titolo Fine. È infatti un tipo di traduzione che riprendendo un’idea che va dal romanticismo fino a Benjamin predilige la cosiddetta traduzione “estraniante, “orientata verso la fonte”, il testo di partenza, piuttosto che appiattirsi sulla lingua d’arrivo. Peraltro il concetto di Fremdheit, estraneità, è ricorrente nel libro riferito sia alla lingua sia alla cultura italiana. La traduzione, pur rispettando le oscurità del linguaggio, è comunque limpida e accurata. A cominciare dal titolo: Osservazioni romane. Tradurre Betrachtungen con “osservazioni”, piuttosto che “considerazioni”, ha a che fare, come ci spiega lo stesso Lozzi, con la tecnica narrativa della Kaschnitz che parte sempre dal “vedere” e dall’ascoltare, come del resto ci indica la citazione contenuta nel titolo del saggio introduttivo Solamente occhi, orecchie che ricordano. E una mano che scrive, (citazione da un suo saggio: Soltanto occhio e orecchio), una modalità di scrittura e una poetica della vista che ricorda Ingeborg Bachmann, autrice del testo “Ciò che ho visto e sentito a Roma”, del 1954, dunque un anno prima che fosse pubblicato il testo di Kaschnitz.

L’osservazione della realtà e la sua descrizione non danno però luogo in Kaschnitz ad una scrittura di tipo realistico. Le descrizioni sono anche una forma di Umdichtung, rielaborazione, rifacimento attraverso la parola poetica del proprio vissuto personale. Ma è anche un modo per prendere possesso della realtà, come spiega nel brano “Il giusto sguardo” (p. 402), in cui dopo avere descritto minuziosamente la glossina, una pianta con degli allegri fiori a campana, scrive: “Questa è solo una breve descrizione a una prima occhiata e tuttavia, mentre scrivo qualche parola, penso già di possedere la pianta in un modo diverso e migliore rispetto a prima. In questo caso, ovviamente, non è tanto la scrittura l’essenziale quanto invece il giusto sguardo, un approccio concreto a un organismo sconosciuto la cui struttura rivela, sin da subito, una parte dei misteri delle sue leggi vitali” (p.402).

Molte pagine di questo testo sono dedicate a riflessioni sulla scrittura, nelle sue varie forme: il diario, la poesia, la prosa, ma anche il fotoromanzo. In un’età in cui l’auto fiction è molto di moda, Kaschnitz appare una anticipatrice. La scrittura autobiografica e diaristica le fu infatti molto congeniale. Se nel diario abbiamo però l’immediatezza, nella autobiografia la memoria e la riflessione. Esistono però diversi modalità di scrivere diari, come peraltro diversi sono i modi di scrivere la propria autobiografia. Kaschnitz distinguerà infatti tra diari che si scrivono per sé e diari che si scrivono per gli altri, e Ponte Sant’angelo, come lei stessa dichiara, appartiene a questa seconda categoria. Quando i suoi diari privati furono pubblicati nel 2000 suscitarono grande stupore, per la mancanza di notizie rilevanti sulla sua vita privata. Nella conferenza Diario dello scrittore Kaschnitz confessa che il suo diario raccoglie annotazioni frutto di esperienze, di letture, sogni che giacciono in attesa di essere usato per un futuro testo. Il diario scrive è “una sorta di serbatoio, una camera dove conservare i tesori” (Kaschnitz, Das Tagebuch 1965). Sono spesso annotazioni brevissime, senza data, a volte incomprensibili ma che possono prendere forma altrove, finalizzati all’idea che si ha in mente di sviluppare. In questo modo nasce anche Ponte Sant’Angelo.

Più di una volta definisce la scrittura diaristica un’espressione femminile, sia nella conferenza Diario di uno scrittore, sia nel testo  Prosa presente in questo libro, perché –spiega- rispetto alla modalità di scritture maschile “il mero vedere e interpretare sembra sempre qualcosa di misero e di rango inferiore, peraltro anche qualcosa di tipicamente femminile, come strofinare e rassettare, guardate qua che bella camera che avete, come brilla tutto. Tutti i diari, autentici e inventati, appartengono a questa dimensione, ricordi, saggi e descrizioni della vita personale, anche il racconto aneddotico che rinuncia allo sguardo psicologico. Così mi è stato riportato questo o quell’evento, così ho percepito questo o quell’avvenimento, così funziona, sempre secondo la mia idea e la mia congettura, questo o quell’altro essere umano. Tanta semplice onestà non impedisce che, anche in questa forma di scrittura, possano fiorire boccioli di fantasia (p.299).

Kaschnitz, di fatto, si serve dei diari, che ha sempre tenuto regolarmente a partire dal 1932, per scrivere in seguito pagine autobiografiche. Lei stessa si definisce “un’eterna autobiografa” : “Passerò alla storia della letteratura, se mai accadrà, come un’eterna autobiografa, una scrittrice intrappolata nella sua stessa cerchia, e giustamente. Perché la mia dote inventiva è scarsa. Vedo e sento, apro gli occhi e drizzo le orecchie, cerco di interpretare ciò che vedo e sento”. Con questa definizione – aggiunge – “posso entrare a diritto nella storia della letteratura (Orte, 1973). I suoi ultimi testi sono autobiografie in forma diaristica Tage, Tage, Jahre. Aufzeichnungen (“Giorni, giorni, anni. Annotazioni”) del 1968, Orte. Aufzeichnungen (“Luoghi. Annotazioni”) del 1973.

Oggetto della sua riflessione è dunque il mondo che la circonda, ma sempre raccontato da un’ottica personale, soggettiva, perché vi è in lei la necessità di tornare alla parola io, un io che, come il mondo, ha perduto la sua integrità, ma che ad essa aspira. In una pagina molta intensa dedicata ai diari, Guardare indietro, la scrittrice in prima istanza mette in luce la selezione che la mente fa nell’appuntare ciò che vede e sente o per “vergogna” o per “mancanza di chiarezza”, sottolineando il suo sforzo di voler tirar tirar fuori dal vissuto, dal quotidiano “l’eterno”. Nell’ultima parte confesserà infatti il desiderio di volere dare con i suoi scritti “compiutezza” e armonia all’incompiutezza del mondo e di sé stessa (pp.126-127). Dare forma al caos, ricomporre l’infranto è dunque l’aspirazione che guida la sua scrittura.

Alcuni testi presenti nel libro permettono di entrare nel laboratorio della scrittrice, un lavoro complesso che sembra non avere nulla a che vedere con l’idea di ispirazione immediata, bensì di costruzione concettuale: “Ho scritto i titoli delle singole poesie in un quaderno e ho lasciato delle pagine bianche a seguire; su queste pagine tratteggerò, prima in modo schematico, le idee che mi vengono in mente su quel determinato tema. Questa materia prima fatta di impressioni, pensieri, ricordi, forme e colori dovrà crescere da sé, pagina dopo pagina si scoprirà qualcosa di nuovo. Solo in un secondo momento si costruiranno le poesie, probabilmente solo dopo aver concluso queste mie annotazioni.” Solo nell’ultima fase creativa, quella in cui si dà forma, si spegne la consapevolezza e arriva la “semina da sonnambula” (p.228-229). L’idea che lei espone è molto chiara: Cerca i temi, li annota, scrive impressioni e idee su vari argomenti e poi nasce la poesia. In un altro brano molto intenso, Nostalgia della grazia (p.287), il processo creativo è ancora una volta descritto non come frutto di un’immediatezza, ma come un lento sedimentarsi di immagini che improvvisamente, anche a distanza di anni vengono alla luce. Per loro però esiste una sola forma (forse). Trovarla è il frutto della “grazia.

Altre pagine cristalline ritornano sull’argomento “scrittura” da diverse prospettive, come Tremotino, dove si racconta della necessità per chi scrive di liberarsi dalle sollecitazioni esterne (perché tutto parla e chiede attenzione) per creare quel “vuoto” necessario all’elaborazione artistica che dà spazio all’immaginazione. Anche una folla rumorosa e anonima o un treno in corsa rendono ciò possibile: “Così i paesaggi che si vedono dal finestrino di un treno in corsa offrono le stesse possibilità, e la sorprendente situazione del “non essere più qui” e del “non essere ancora lì” rende lo scompartimento del treno il luogo di eremitaggio ideale”. (p.206).

Rendere conto di tutte le sollecitazioni che stimolano la lettura di queste pagine è pressoché impossibile. Tra le pagine più belle dedicate alla città romana, con i suoi monumenti, le sue piazze, ma anche i suoi aspetti più miseri e inquietanti, voglio ricordare solo Meglio di un richiamo di un tarabuso, in cui la scrittrice osservando all’inizio criticamente il prevalere a Roma, ma in generale nelle città italiane, dell’architettura sulla natura, comprende improvvisamente, guardando da un’altra prospettiva, che nell’”esigenza di ricoprire, come con una maschera di pietra, le forme della natura”, si nasconde la volontà “di sottrarre al tempo fugace non solo l’ambiente intorno a noi ma anche noi stessi”(p.361). La conclusione finale è sorprendente ed estremamente poetica: “D’un tratto m’incantò il pensiero per il quale lì dove non avvizzisce nessuna foglia e nessun filo d’erba inaridisce nei giorni della canicola, la morte aveva perso tutti i suoi diritti, e da lì le piazze romane mi sembravano una fuga di sale eternamente in festa, i giardini romani mi parevano oleandri dentro vasi e cespugli di rose dentro recipienti che si espongono solamente fintanto che sono in fiore. Piazza del Campidoglio, Piazza del Quirinale, Piazza Colonna, Sant’Ignazio, pietra su pietra, ma che superamento della morte, che musica umana, tale da non poter essere sostituita da nessun mormorio del bosco e nessun richiamo del tarabuso”. (ibidem)

Le immagini si susseguono e si sovrappongono in un variopinto caleidoscopio in cui l’osservazione attenta della realtà è il motore primo che muove la sua scrittura, evocando ricordi, suscitando riflessioni sulla vita e la morte, sull’arte e il paesaggio, che lungi dall’esser quello idealizzato da tanta letteratura di viaggio mostra le crepe della storia e la violenza della guerra. Uno dei primi brani del volume porta il titolo Dieci anni dopo la grande guerra in cui interrogandosi su ciò che l’umanità ha “ricavato internamente da un’esperienza spaventosa che è stata l’annientamento di massa” risponderà dichiarando i suoi dubbi sulla “fede ottocentesca nel progresso”, ma anche la necessità di non arrendersi alla “ delusione di fronte al regresso nell’eterno umano”. Concluderà con queste parole: “Dove siamo noi? Sempre in mezzo a un campo di battaglia, nel quale si tratta di trovare un punto di incontro, giusto e umano, tra rinuncia e asserzione”.