fonte La Stampa.it

Egle Palazzolo

Ma perché muore Vanessa, 25 anni e certamente qualche progetto in mente, qualche legittimo desiderio da realizzare, compreso quello di poter amare con libertà di scelta e senza paura? Forse perché l’uomo che un brutto destino le ha fatto incontrare la uccide “con cinque colpi di pistola” così come ha minacciato di fare e come lei ha prontamente riferito, accusandolo di stalking presso le forze dell’ordine? Pare non possa esserci un dopo rispetto alla macabra e rituale notizia di un femminicidio ormai. E che la cronaca del dolore dei parenti, delle pubbliche fiaccolate, della ribellione di donne in piazza si assomiglino e subiscano lo stesso seguito: memoria che sbiadisce e rapido silenzio. Ma non è così, ogni crimine, ogni violenza sulla donna segna una storia personale, un cammino con punti in comune ma anche di profilo diverso e mai ancora esaminato sino in fondo, colto nei suoi dati indicativi rispetto a una società apparentemente mutata ma tenuta per il bavero da oscurantismi pregressi. Che nessuna vera luce di prevenzione verso un possibile e persino annunziato finale di morte è mai stata veramente accesa. Lodevoli tentativi, di donne che si organizzano per accogliere e sostenere donne in difficoltà, nuove leggi punitive, eppur di non facile applicazione, ma nessuna rigorosa e concreta indagine nel comparto sociale che contribuisse a cambiare le cose, nessuna vera attenzione laddove è intuibile il rischio, nessuna voglia autentica di aiutare una donna pestata a casa o una studentessa che non riesce a rompere un suo rapporto sentimentale. La frequenza dei femminicidi la dice lunga su quella che è una “pandemia sociale” come giustamente è stata identificata: siamo ad un punto morto, con i servizi in cronaca e le puntuali analisi di esperti, mai tramutate in qualcosa che non faccia di troppe famiglie un teatro di estrema violenza e di tanti rapporti di coppia un protocollo di morte per la donna.

Noi il tentativo di un dopo notizia lo facciamo. E ad Acitrezza, a Trefontane, dove Vanessa viveva, lo avranno fatto: inutile denunciare (e non è, specie in Sicilia il primo caso), inutile la speranza di rompere un legame che non si vuole più. Piuttosto l’uomo uccide e, come in questo caso, si uccide. Davvero ogni femminicidio indica qualcosa in più e qualcosa di diverso. Suicida l’assassino – per paura, per fallimento, per raptus contro chi considerava sua proprietà esclusiva, per incapacità di una relazione non perversa? – Poca pietas a delitto compiuto se non la necessità di comprendere per evitarne altri. Ma c’è qualcuno, e se c’è ce lo dica, che vuole davvero bloccarla la deriva del femminicidio? Ed è così difficile qui dove non c’è la Sharia, laddove anzi ci si dovrebbe muovere in qualche modo per evitare a tante donne afghane il terrore e la morte, laddove chi ne ha autorità e forza potrebbe salvare venticinque donne magistrato che hanno applicato la legge contro i talebani e ora sanno di essere nel mirino delle loro rappresaglie? Abbiamo uno scenario internazionale da brivido e facciamo l’ennesimo funerale a una vittima di casa nostra. Parità di genere: ci abbiamo creduto e qualcuno forse pensava che dall’alto ci si potesse organizzare per assicurarla ai popoli che ne avevano aspirazione. Non neghiamo nulla di quanto si è fatto e ottenuto dalle donne per le donne. Ma che non resti in gran parte disperso. Non recriminiamo soltanto, preveniamo, operiamo perché una ragazza come Vanessa non muoia prima di vivere davvero.