Egle Palazzolo

 

La sferica installazione, elemento tuttavia ormai frequente sulla scena del Teatro Greco di Siracusa, captava, con immagini e forti colorazioni, fatti e misfatti vecchi e nuovi; poco oltre l’occhio doveva posarsi sulla fiammante Lancia chiara ai margini del palco e l’orecchio abituarsi ai molteplici colpi di pistola non negati ad alcuno dei personaggi, eccezion fatta gli dei. Nelle scene finali di innegabile effetto, il crollo di un ponte, con palese riferimento alla sciagura del Morandi. Detto ciò sommariamente, un sincero “evviva” va con tutta convinzione a Davide Livermore per un allestimento fitto e pulsante impresso alla realizzazione di Coefore-Eumenidi da un’Orestea, senza Agamennone ma non priva di lui. Regista-interprete attraverso palesi, personali letture di testi anche classici, Livermore ha già offerto a Siracusa un’applaudita e insolita “Elena” di Euripide. Con Eschilo si ritrova a un discorso non facile ma sollecitante per chi, come lui, fa del teatro uno spazio aperto a quanto è espressione e spettacolo e si misura in un non semplice amalgama con i mai sradicabili elementi che il primo dei tre grandi poeti del teatro antico pone al centro: la famiglia, il potere e il diritto, la giustizia con la vendetta a specchio, il tribunale, la sua composizione, la sentenza, il destino. Lo offre a noi dell’anno 2021 come quasi certamente non lo offrì l’edizione del 1921 (la coincidenza è stata più volte segnalata) quando dopo un’altra sofferta pandemia, esattamente come adesso, il teatro greco riaccolse il suo pubblico. Sarebbe interessante metterli a confronto e riflettere sul cammino in avanti, sulla proiezione che raggiunge, quella inconfutabile realtà, che è in ogni tempo la scena, il teatro, gli interpreti, i registi, spesso nuovi autori e il pubblico stesso.

È abbastanza evidente che affiancato da Walter Lapini in una traduzione che ha tenuto conto delle direttrici di marcia del regista e della possibile identificazione dei personaggi principali a partire principalmente da Oreste: è uomo fragile, spaventato, indeciso, incalzato da un Apollo che indossa abiti da cocktail -party, dove possono anche trattarsi più o meno leciti accordi e che gli prospetta  pene implacabili se si sottrae a farsi giustiziere della morte di Agamennone uccidendo Clitennestra sua madre che ne è stata l’esecutrice. Oreste non appare il figlio implacabile e determinato, non quanto la sorella Elettra che con le donne del coro lo accoglie come il giustiziere della famiglia degli Atridi. Balbetta, è preda di nevrosi, avvicina la madre non senza tremori o commozioni e il bisogno di essere assolto,ancor prima di compierlo, del gesto infame che gli scatenerà contro implacabili Erinni.

Non c’è essere umano, dice Eschilo, che prima o poi non incontra la colpa. Quella di Oreste arriverà alla gravità del matricidio, quella di Clitennestra alla soppressione, in condizione ormai di adultera, il re, suo marito, tardivamente ritornato da una guerra infine vittoriosa e osannato da eroe. Su di lei la condanna e la ferocia dei figli, sulla tomba del marito il pianto unanime. Sono passati dieci anni da quando Eschilo scrisse la prima parte della trilogia che mette a punto la figura di Agamennone e quella della moglie

Clitennestra è donna e sappiamo ciò che Eschilo pensa delle donne. Ma, senza forse tenerlo bene in conto, il poeta ha disegnato un personaggio di grande spessore. E spesso possono esserlo le donne delle tragedie greche. Mi viene da dire “io sto con Clitennestra”. Sa di un marito che resta fuori anche a guerra finita, tenendosi a fianco una giovane amante, ha pianto amare lacrime perché il successo che Agamennone ha ottenuto su Troia gli è stato favorito dalla uccisione di una sua figlia sacrificata all’altare degli dei per propiziarli, da sola ha tenuto a bada il popolo del suo regno e affermato il suo potere di regina. Diciamo pure che il potere ottenuto aveva in qualche modo compensato Clitennestra, a cui Egisto avrebbe solo coperto il fianco come re consorte. Il ritorno di Agamennone vanifica questo suo aspetto di regina. E lei uccide. Il teatro greco, e con ogni diversità per tutti e tre i grandi autori, tiene conto della forza scenica della narrazione ma dà sin troppo spazio al dibattito. Qui si gioca la preparazione e la capacità di un regista che ha fatto con chiarezza le sue scelte, soprattutto quando il nocciolo duro della tragica vicenda riguarda la giustizia, il suo apparato, i suoi esecutori e i suoi più o meno plausibili manovratori. Oreste, un ottimo, credibile Giuseppe Sartori, scappa braccato e inseguito dalle Erinni con la sua maglietta strappata e i suoi pantaloni sporchi, ma attraverso l’intervento solutorio di Athena sarà libero; Clitennestra, la splendida Laura Marinoni, qui in relazione agli anni 40 scelti per l’ambientazione, ha vesti luccicanti, riccioli biondi, copia il cinema dei telefoni bianchi e tra un sorso e l’altro scende agli inferi. Aleggia la domanda di quanto siano dissimili o egualmente esecrabili i due delitti e perché tanto diverso ne sia l’esito.