Caterina Pastura

A Palermo vado insieme a una carissima amica di lungo corso, Amina, e a una ventina di donne (ma c’è anche qualche uomo tra noi) che in gran parte conosco solo di vista, con il piccolo bus organizzato dalle ragazze di Non Una Di Meno. Eccola lì, la lingua coi suoi lampi, coi suoi segnali d’allarme, la lingua che non perdona il tempo: ho scritto ‘ragazze’, laddove fino a qualche anno fa, nello stesso contesto, avrei pensato, detto, scritto con gran disinvoltura, precisando il campo d’azione e d’intenzione, compagne. E già mi sento di fronte al tribunale delle grammatiche più o meno di genere e più o meno corrette: 1) non siamo tutte giovani; 2) non siamo tutte femmine. E questo già basta a segnare lo stare dentro (il gruppo) e con (donne e uomini di generazioni diverse) nella postura di un fuori, quella dell’ospite…

All’arrivo a Palermo, improvvisamente sento far capolino lo straordinario senso di estraneità che mi coglie nei miei microspostamenti anche in luoghi che conosco già, e ogni volta mi viene in mente, chissà perché, la copertina de Il piccolo principe, ogni volta approdo non so come, in un pianetino sconosciuto, fatico a orientarmi, ma stare insieme ad altri mi rassicura. Oggi però conosco bene la ragione che mi ha portato qui: il dolore per quanto accaduto e continua ad accadere non solo qui, per le ragazzine stuprate a Palermo e a Caivano, lo sgomento per i commenti che accompagnano queste tragedie annunciate dalla permanenza di una mentalità che non risparmia persino altre donne, altre madri, quelle degli stupratori, il rifiuto ostinato dell’impotenza che ci minaccia.

Mentre il nostro drappello, colorato del nero e rosa-fucsia che qualcuno ha proposto come divisa simbolica della protesta, raggiunge piazza Bellini, il punto convenuto per l’avvio del corteo, mi rendo conto che la mia tenuta in jeans chiari e camicetta azzurra è una deroga non deliberata a quella divisa. Il colore inconsapevolmente insubordinato dei miei abiti aggiunge un altro elemento alla sensazione dell’ospite… Sicché quando, di lì a poco, in anticipo sull’orario previsto (le 17) incontro in piazza Beatrice con la sua bella tunica verde acido e qualche altra mia coetanea senza traccia di nero e rosa addosso, mi sento meno mosca bianca e penso che semplicemente la nostra generazione ha voluto essere presente oggi, anche se ha trascurato le simbologie cromatiche della partecipazione. Di tanto in tanto scatto foto con il cellulare, le invio alle amiche che non sono potute partire con noi, per avvicinarle alla piazza che lentamente s’affolla, ai visi che la animano, agli slogan sugli striscioni e i cartelli. Serpeggia l’inquietudine di essere ancora in poche, il timore che la città non risponda alla chiamata di quel dolore, di quel rifiuto, ma quando dalla piazza si comincia a fluire a passo lento lungo la strada che ci porterà fino al palazzo in cui ha sede la Regione, capiamo di essere tante e che, lungo il cammino, la nostra fila s’allunga, s’ingrossa… Di tanto in tanto cerco un punto più alto, una scalinata, un muretto, una panchina, per provare a documentare questo ‘tante’, come per rassicurare me stessa più ancora che chi riceverà i filmati o le fotografie. Rassicurarmi di quella partecipazione voluta e giusta, ma anche del fatto di essere arrivata fin qui e di sapere perché (chi viaggia poco, come me, ha quasi sempre bisogno di una giusta ragione per farlo, raramente, ahimè, si concede di andare solo per andare, dunque quel ‘perché’ diventa fondamentale).

Mentre cammino accanto ad Amina – perdendo di vista di tanto in tanto sia le compagne palermitane di altri cortei in altra epoca, sia il drappello messinese in parte sparpagliato, ma con un suo striscione a far da punto di riferimento – sento come un rumore il mio silenzio. 

Dov’è finita la voce della mia protesta? Cosa mi impedisce di urlare insieme alle donne e agli uomini che condividono questa stessa strada? Che diavolo mi prende? Chi o cosa mi ammutolisce? Quale timore? Se non ora, quando diavolo pensi che si debba alzare la voce? mi dico, anzi, mi rimprovero, come non riconoscessi più in me quella di una volta. Quale volta? Non mi verrai a dire adesso che c’è un tempo pure per esprimere il furore, per mostrare il dolore? Non dire sciocchezze! Qui è questione di diritti, di giustizia, di vita o di morte, lascia perdere le tue paranoie, tutte queste storie sul sentirsi ospite solo perché non sei più giovane, insomma una in qualche modo al suo posto ma fuoriposto. Sarai pure anziana ma la grinta ce l’hai ancora, mi pare. E non dirmi che non hai il fiato per cantare o per gridare, ce l’hai, ce l’hai, ma come tante altre cose forse l’hai lasciato sotto chiave troppo tempo e ora pensi di essere senza voce e senza parole… 

Senza parole, già, ma non perché penso che siano inutili, tutt’altro, ho un’incrollabile fiducia nelle parole (dunque nelle relazioni che generano), piuttosto perché se è fin troppo facile dare parole al furore non lo è altrettanto darne al dolore e ancor più difficile è sottrarsi alle ambiguità, alle trappole della rappresentazione del dolore.

Appartengo al tempo di quella rivoluzione permanente racchiusa (e spalancata) in una frase: il personale è politico. Anche il dolore lo è. Il dolore è politico. Se sono qui, penso mentre cammino in silenzio, in ascolto delle mille voci di quel dolore e di quel furore, se sono qui come tante altre e tanti altri, giovani e meno giovani, è per questo, per questa profondità di segno e senso politico del dolore, che non ha una sola voce, una sola lingua, una sola maniera di esprimersi, ma le mescola tutte e può lasciarti senza parole, lasciandotene una dentro, inaudita, inudibile: pudore. Non certo quello confezionato e brandito come una mannaia contro le donne da ogni genere di potere, laico o religioso che sia, in ogni tempo e in ogni luogo, non quello che allunga orli delle gonne, che mette veli, che cancella, censura, ammutolisce e copre, no, contro quello sapremo e vorremo sempre essere spudorate. Parlo di quel sentimento paradossale (ma non tanto, a ben pensarci) di presenza per sottrazione che ti lascia dentro il dolore, un sentimento assolutamente privato, eppure politico; non un atteggiamento e men che mai una norma; un sentimento, qualcosa di non disciplinabile da nessun codice, perché lo senti, lo provi, lo riconosci con il corpo e con la mente, il tuo corpo con la tua mente, solo a una condizione: la libertà. 

E così, dentro il  corteo del 9 settembre a Palermo, nel mio stravagante essere insieme al posto giusto e fuoriposto, camminando in silenzio ma come se avessi cento orecchie tutte aperte a portare dentro le voci, tante, diverse, intorno a me avverto il movimento pudico e forte, sensato e necessario dell’accostarsi, tendersi le braccia e tenersi per mano di donne e uomini, di persone di diversa generazione e di diverso genere, impegnate in direzione ostinata e contraria a dire il proprio NO, ma anche a cercare e affermare possibili SÌ, a lottare contro violenze e prevaricazioni, ingiustizie e umiliazioni, ma anche ad aprire varchi all’utopia creatrice, al futuro.

Solo un rovello mi è rimasto, tra tante feconde emozioni, e la semplice constatazione di essere ultrasessantenne non è riuscito a darmene adeguata ragione: 

perché mai arrivare, a conclusione del corteo, dilagando nella piazza ai piedi del palazzo della Regione siciliana accompagnati dalla canzone Maledetta primavera, a dir poco incongrua con quella lotta, con il dolore, con il furore, persino con l’entusiasmo che ci hanno portato qui? 

Distrazione nella compilation musicale o misura apotropaica con sinistro riferimento agli esiti dell’ottocentesca primavera dei popoli e, via via nel corso del tempo, di tutte quelle primavere tornate nelle piazze fino ai giorni nostri? 

Se qualcuna o qualcuno lo sa, per favore, mi risponda perché se per dire i nostri NO servono anche leggerezza e giocosità, non sarà mai la banalità di certi motivetti a farci ritrovare la forza delle voci per protestare. Nel caso contrario, ogni festival di Sanremo sarebbe una rivolta di popolo. E così non è.