Daniela Gambino

Quest’anno, durante le passeggiate del lockdown, ho visto fiorire le mimose. Le ho anche fotografate con lo smartphone e le avrei tranquillamente condivise, se non avessi temuto di passare per femminista d’antan. La faccenda è che la mimosa, soprattutto sui social, viene presa in giro. Il dileggio della mimosa sta raggiungendo un livello di un certo tipo. Non c’è da preoccuparsi, piuttosto, c’è da informare e trovare una formula, che sia lieve, veloce, progressista, per farlo.

Fateci caso, l’8 marzo, meglio non regalare una mimosa a una donna, perché se è una donna avanzata, ti sfotte, come minimo, ti ricorda che dopo due giorni puzza, che “non mi devi regalare mimose, ma rispettare ogni giorno”.

Ok, ma la mimosa ha un significato profondo e dimenticato. Ed è un significato più persistente del suo profumo, più forte dei fiori. Intanto, è un fiore che non ammette privilegi e cresce spontaneo.

Nel 1946 l’U.D.I (Unione Donne Italiane) lo sceglie per simboleggiare la festa della donna: è tutte possono avere “un rametto piccolo da appuntare alla camicetta o alla giacca”.

Quell’anno, le donne, votano per la prima volta. Ed è una festa incredibile.

Votano, vanno al seggio, prima non potevano. Insisto perché immaginate, è il 1946, la Sicilia diventa autonoma, nasce la Vespa, Vittorio Emanuele abdica in favore del figlio, lo scrivo per spiegare l’aria che  tirava. Noi donne abbiamo rischiato di andare in giro in Vespa prima che alle urne.

Cerco, ormai, sistematicamente, una maniera gentile ed efficace, per ricordare alle nuove generazioni quanto faccia figa essere femminista.

Dico fa figa, perché, uno dei terrori di ragazzi e ragazze, mi sembra essere questo: apparire sfigati.

Lo spettro degli sfigati, degli impopolari, dei timidi, degli introversi, si aggira sui profili dei ragazzi e ragazze costretti al confinamento. La solitudine imposta fa a pugni con la solitudine reale.

Dico fa figa non perché cerchi, in modo ridicolo, di rinverdire il linguaggio usando un’espressione giovanilista, ma perché cerco di tracciare un percorso che possa trovare dei punti comuni.

Perché le storie di molte femministe sono belle ed esemplari e fanno venire voglia di far parte di una lotta giusta e utile.

Una lotta come quella per l’ambiente, per il lavoro, per il futuro. Necessaria, come bene primario. Se hai uno smartphone con cui fare video, devi avere anche diritti chiari, non rischiare di incappare nel porno revenge,

Le storie delle femministe non sono storie di vittime. Lo scrivo a ragion veduta perché spesso le ragazze me lo dicono “non vogliamo essere vittime”.

Sono storie audaci, coraggiose, sono storie di ragazze che vincono, perché acquistano diritti.

Sono conquiste che loro devono garantirsi e mantenere, come? “Tenendo alta la guardia”.

Però le ragazze forse non hanno più voglia di stare sempre attente. Di tenere alta la guardia. Cioè, lo fanno, sempre, è chiaro, ma certe volte sfugge loro il senso profondo di questa attenzione.

Sfugge la convenienza. La bellezza. La ricaduta diretta nelle loro esistenze. In queste vite social che condannano a una vetrina pubblica, a una seduzione continua.

Se le donne emancipate e consapevoli sono il nostro fiore all’occhiello, è chiaro che le altre donne restano tagliate fuori e percepiscano il movimento come un ulteriore motivo di distanza.

Avviene lo stesso attraverso i media, in programmi come il festival di Sanremo, dove una femminista o circoscritta come tale, tiene un monologo femminista e si lamenta del poco spazio dato ai temi, in un programma condotto da uomini.

Risultato: tutto è molto confuso, nessuna di queste ragazze si sente rappresentata. Viene loro detto di non abbassare la guardia e impegnarsi. Di lottare, ma per cosa?

Sappiamo bene che esistono realtà, mi riferisco a quartieri a rischio, per esempio, dove impegnarsi o non abbassare la guardia non solo è la regola ma la necessità per conseguire bisogni primari ben più pratici ed evidenti: tipo cercare come arrivare a fine mese, non rimanere incinta da minorenne, non subire aggressioni fisiche o verbali. Cos’è “stu travagghiu superchiu?”, mi chiesero una volta, cioè, cos’è questo femminismo, cosa mi chiede? Forse travaglio (lavoro) in più nella mia vita?

Bisogna che una ragazza di un quartiere a rischio, sappia cosa ‘ne viene a me’, quali sono i vantaggi del femminismo, di questa lotta, nella mia vita di tutti i giorni? Se no il confronto è sempre impari. Se resta più conveniente fare un buon matrimonio, se sei più accettata quando sei in coppia, picciotta di bella e accollativa, se diventa più semplice sedurre un uomo di potere e sperare di farsi campare, se resta più importante farsi vedere in tivvù, invece che trovare un buon lavoro a parità di salario, un lavoro dignitoso, è chiaro che le ragazze sceglieranno questo. Se rimarrà più importante sentirsi dire “sei bella” piuttosto che “sei intelligente”, e imparare con chiarezza come questa qualità non si escludano a vicenda. Oppure “sei una brava massaia, sei comprensiva”, piuttosto che “sei brillante, decisa o in grado di cavartela da sola”. La rivoluzione va fatta sul sistema, sui valori. Su “chi apparecchia a casa”. Che non c’entra niente la lotta contro gli uomini, ma anzi, c’è una esigenza fortissima di un raffronto più autentico e sincero, senza forti e deboli, ma solo differenti.

Senza travagghiu superchiu, anzi, finalmente, suddiviso.